Investono soldi, spesso danno stabilità, non sempre portano risultati. Ma, anche quando li portano, le proprietà straniere del calcio italiano palesano ancora una enorme fatica a farsi apprezzare, perché sostanzialmente non riescono a fare capire le proprie logiche a un pubblico abituato ad altre figure, spesso più ruspanti, molte volte decisamente meno affidabili, ma comunque locali e, anche solo per questo, considerate più “vicine”. Sembra un paradosso, ma la realtà dice proprio questo.
Dove, oggi, metà della Serie A è in mani straniere, ancora 14 anni fa era quasi tutta campagna italiana. Stava per entrare nella Roma Thomas Dibenedetto, era il febbraio 2011 e, sino ad allora, solamente un club italiano, di fatto, era stato governato da capitali stranieri, e con risultati piuttosto modesti. Il Vicenza nel 1997 diventò infatti un asset del gruppo finanziario inglese Enit, che rilevò il club veneto – in crisi finanziaria – dalle mani della famiglia Dalle Carbonare, diventando così la prima società italiana avente come azionista di riferimento una proprietà straniera. Presidente fu nominato l’allora 37enne Stephen Julius, che annunciò l’ingresso del Vicenza in Borsa e una nuova, aggressiva, politica di merchandising. In realtà, nonostante le buone intenzioni, nulla di tutto ciò avvenne e, nel 2003, l’Enic mise in vendita la società che nel frattempo aveva maturato 5 milioni di euro di debiti. Sogno svanito per i tifosi biancorossi, allettati dalle premesse: male la prima, poi…