Foto di copertina creata con DALL•E
Undici su venti. È questo il numero delle proprietà straniere in Serie A, senza contare la B e la C. Un cambiamento continuo al vertice del calcio italiano, e inesorabile. I motivi sono tanti e alcuni scontati. I ‘cavalieri’ del capitalismo italiano che negli anni Ottanta e Novanta avevano trasformato la Serie A nell’Eldorado del calcio, sia per gli stranieri che si arricchivano che per le squadre tricolori che facevano incetta di coppe europee, quando i controlli finanziari erano decisamente meno rigidi e non esisteva il fair play finanziario, hanno sperperato l’incommensurabile – come direbbe il mitico Frengo, interpretato da Antonio Albanese –, hanno finito i soldi, rischiando di mettere in difficoltà anche le aziende di riferimento, senza investire in infrastrutture per i settori giovanili, nuovi stadi e attrezzarsi di fronte all’incombente globalizzazione del calcio: miopi, presuntuosi e impreparati; con loro le varie governance di federazione e leghe, con qualche distinguo a casaccio. Mentre Bundesliga, Ligue 1 e Premier League ragionavano diversamente – la Liga ha vissuto e vive di grandi ipocrisie e bluff checché ne dica Javier Tebas Medrano –, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Proprietà straniere che in Europa hanno seguito il flusso dei soldi: dagli oligarchi dell’Est Europa, arricchitisi sotto le macerie della cortina di ferro, ai ‘capitalisti’ cinesi, dai Paesi del Golfo, con la forza dei carburanti, ai nordamericani, soprattutto statunitensi, che con il prossimo Mondiale per club e United 2026 hanno scommesso sul soccer come nuovo investimento sportivo, redditizio, anche se, è bene ricordarlo, il calcio europeo viaggia su binari economici e finanziari diversi da quelli delle leghe a stelle e strisce. Proprietà straniere che spesso sono fondi di investimento o società offshore, come racconta bene Lorenzo Bodrero su irpimedia.irpi.eu.
È abbastanza curioso, poi, che le proprietà straniere siano arrivate quando la Serie A era già in decadenza, ma anche in questo caso i motivi sono abbastanza chiari. Qualche anno fa Simon Kuper, giornalista del Financial Times e autore del libro