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Trump, i dazi, lo sport e la perdita di soft power Usa

I fischi all'inno statunitense a Toronto, Ottawa e Vancouver in NBA e NHL sono un segnale: prendono di mira un simbolo politico per contestare una decisione politica

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di Nicola Sbetti

L’attività sportiva, non lo scopriamo certo oggi, tende a riflettere le tensioni sociali e politiche del contesto in cui viene praticata. A sua volta, specie nei contesti di maggior popolarità e visibilità, ciò che avviene nello sport può influenzare il contesto socio-politico circostante. Non sorprende quindi che le tensioni fra Canada e Stati Uniti, emerse dapprima a seguito delle dichiarazioni di Donald Trump che vorrebbe fare del “vicino del nord” il 51esimo stato a stelle e strisce, e soprattutto a seguito della sua scelta di imporre dazi del 25% sulle importazioni canadesi, abbiano avuto riflessi anche sul mondo sportivo nordamericano.

Sui media italiani, si è parlato soprattutto dei fischi avvenuti durante l’esecuzione dell’inno statunitense in occasione dell’incontro di domenica 2 febbraio valido per la regular season dell’NBA fra i Toronto Raptors e i Los Angeles Clippers, ma situazioni analoghe si sono ripetute più volte anche nell’hockey su ghiaccio, che per molti versi rappresenta un caso ancora più interessante. Si tratta infatti dello sport nazionale canadese e nell’NHL, la lega professionistica nordamericana, partecipano ben sette franchigie canadesi.

Già sabato 1 febbraio si erano registrati fischi in occasione dell’esecuzione de The Star-Spangled Banner prima di Ottawa-Minnesota e Calgary-Detroit, mentre l’esecuzione di O Canada è stata accompagnata da un supporto tutt’altro che ordinario. La contestazione si è poi ripetuta domenica in Vancouver-Detroit ma soprattutto anche martedì sera, in occasione di Vancouver-Colorado e di Winnipeg-Carolina, nonostante nel frattempo fosse arrivato l’annuncio di una sospensione per trenta giorni dei dazi.

Per un paese profondamente patriottico e nazionalista come gli Stati Uniti, la contestazione all’inno nazionale è stata vissuta da molti come un affronto e fra le principali reazioni sui media si sono sottolineati in particolare due temi: quello della mancanza di rispetto e quello della politicizzazione dell’arena sportiva.

Entrambe queste obiezioni sono interessanti perché tendono ad omettere un elemento fondamentale. L’esecuzione dell’inno prima di una partita di campionato non è un obbligo ma una precisa scelta politica. In Europa, ad esempio, è molto raro (lo fa la Lega basket dal 2015 per volontà di Petrucci), ma persino negli Stati Uniti si tratta di una tradizione recente. Le due guerre mondiali avevano contribuito ad accrescere i momenti in cui l’inno veniva suonato in occasione di eventi sportivi, ma se nel corso del Novecento, assumere una banda per l’esecuzione dell’inno era costoso e quindi lo si faceva solo negli eventi internazionali o più importanti come le finali. Oggi invece la tecnologia permette di risparmiare. Ma non si tratta solo di soldi. In particolare dopo l’attentato alle torri gemelle, nel contesto delle politiche federali per rilanciare il patriottismo statunitense, la rituale e ritualizzata esecuzione dell’inno nazionale in occasione di eventi sportivi è stata voluta e promossa dal Dipartimento della difesa.

Ovvio quindi che i fischi all’inno siano una presa di posizione politica, ma sono una presa di posizione politica che prende di mira un simbolo politico (l’inno statunitense) per contestare una decisione politica (l’imposizione dei dazi). Mancare di rispetto all’inno per lanciare un segnale al governo è però proprio quello che il pubblico canadese voleva fare. Una chiara presa di posizione contro le decisioni del governo Trump, che va in netto contrasto con quanto tradizionalmente aveva sin qui fatto il pubblico canadese. Ad esempio, a seguito dell’11 settembre o in occasione di altre tragedie statunitensi si era sempre dimostrato estremamente solidale, ancor più in occasione dell’esecuzione de The Star-Spangled Banner, con il proprio vicino.

I fischi all’inno sono anche un modo tangibile per segnalare come basta poco per perdere quel soft power che è stato negli anni uno dei capisaldi dell’egemonia statunitense sull’Occidente e in particolare sul Canada. Chissà se in qualche modo hanno influito sulla decisione di Trump di fare momentaneamente marcia indietro o se hanno contribuito a fargli decidere di assistere lunedì 10 febbraio a Philadelphia-Kansas City, diventando così il primo Presidente statunitense a partecipare ad un Super Bowl. L’NFL infatti è l’unica lega dei grandi sport di squadra americani ad essere esclusivamente statunitense.

In ogni caso, tornando all’hockey su ghiaccio, in questo contesto potrebbe diventare particolarmente interessante seguire la 4 Nations Face-Off. Si tratta di un torneo che va a sostituire l’ormai declinante All star games in cui si sfidano le selezioni di Canada, Stati Uniti, Svezia e Finlandia. Non si tratta delle quattro nazionali poiché la competizione non è organizzata dall’IIHF, che nel frattempo ha confermato l’esclusione di Russia e Bielorussia dall’attività sportiva anche per la stagione 2025/2026, ma dall’NHL. Insomma quello che sembrava essere un semplice riempitivo, tutt’al più un torneo pre-olimpico diventa ora un appuntamento da non sottovalutare per le sue possibili implicazioni politiche. In particolare la partita del 15 febbraio a Montreal fra Canada e Stati Uniti si preannuncia essere un autentico termometro per misurare lo stato di salute delle relazioni fra i due paesi. Una partita con il potenziale di entrare non solo nella storia dell’hockey e dello sport, ma in quella con la “s maiuscola” al pari di Cecoslovacchia-URSS 4-3 del 1969 o Stati Uniti-URSS 4-3 del 1980.


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Nicola Sbetti insegna all’Università di Bologna. Si occupa di storia dello sport e del rapporto fra sport e politica. Membro del Consiglio direttivo della Società Italiana di Storia dello Sport.