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“Ancora tu?”

Gianni Petrucci, 80 anni a luglio, è stato rieletto presidente della Federazione italiana pallacanestro per la sesta volta, la quarta consecutiva

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di Roberto Gennari

Parafrasando una famosa canzone del grande Lucio Battisti, «ma non dovevamo non vederci più?». Citando invece il sito della FIP (refusi inclusi): «È stato eletto e riconfermato Presidente della FIP dalla 50ª Assemblea Generale Ordinaria del 21 dicembre 2024 (Roma). In precedenza era stato eletto dalle Assemblee del 21 novembre 1992 (Roma), del 29 giugno 1996 (Roma), del 12 gennaio 2013 (Roma), del 17 dicembre 2016 (Roma) e del 13 novembre 2020 (Roma)». In pratica, anche facendo un banalissimo conto con le dita delle mani, siamo di fronte a un sesto mandato alla presidenza del più importante organo della pallacanestro nostrana.

Di chi stiamo parlando?

Ma di Gianni Petrucci, naturalmente. Uno degli uomini più potenti e influenti dello sport italiano ormai da un gran numero di anni – nel periodo che va dal 1999 al 2013, in cui non era presidente FIP, è stato presidente del CONI – e che, nonostante le sue 79 primavere, saranno 80 a luglio di quest’anno, si è portato a casa il 70% dei voti per restare ancora in carica in FIP, per il quarto mandato consecutivo. Questo nonostante una situazione – per quanto riguarda la Nazionale e i campionati delle leghe inferiori – tutt’altro che rosea. 

Gli azzurri del basket, di cui abbiamo già diffusamente parlato in pezzi passati di questa rubrica, non salgono a podio di una competizione maggiore ormai da 21 anni, da quel bellissimo e insperato argento olimpico del 2004. Hanno avuto come “acuto” il quinto posto ai Giochi Olimpici 2020 (cioè 2021, insomma ci siamo capiti) e una “maledizione dei quarti di finale” che perdura ormai da Atene 2004: ci siamo fermati a un passo dalla semifinale agli ultimi quattro Europei, all’ultimo Mondiale, all’Olimpiade sopra citata. E certo, in campo non scende Petrucci, per cui su questo c’è da imputargli fino a un certo punto. Ma i riflessi nelle squadre di club si vedono e sono sotto gli occhi di tutti. L’ultima squadra a giocare una finale di Eurolega è stata la Fortitudo Bologna, nel 2004, e nei vent’anni successivi abbiamo avuto la bellezza di tre squadre italiane eliminate in semifinale. Ma, obietterete voi, le squadre di club non possono essere l’unico indicatore dello stato di salute di un movimento, ed è un’obiezione più che giusta.

La Francia, per esempio, a questo livello ha fatto peggio di noi: è dal 1997 (Villeurbanne) che non manda una squadra alle Final Four di Eurolega. Eppure, il movimento d’oltralpe produce molti più talenti del nostro: nell’arco di tempo che va dal 2004 a oggi, infatti, i Bleus hanno vinto due argenti olimpici, due bronzi mondiali, vinto un europeo con altre quattro apparizioni sul podio. Inoltre, hanno attualmente 13 giocatori in NBA (noi abbiamo il solo Simone Fontecchio), tra cui le scelte numero 1 (che peraltro era stata francese anche lo scorso anno, con il fenomeno Victor Wembanyama), 2 e 6 dell’ultimo draft NBA.

Discorso analogo vale per la Germania, altra Nazionale che negli ultimi anni ci ha superati in quanto a rilevanza nel mondo cestistico: mai una squadra tra le prime quattro di Eurolega (con l’Alba Berlino che è ormai da anni abbonata ai bassifondi della classifica), terza all’ultimo Europeo e addirittura Campione del Mondo in carica.

Per tacer della Spagna, che fino a vent’anni fa era una Nazionale di livello pari se non inferiore alla nostra, ma che da allora si è portata a casa due titoli mondiali, tre medaglie olimpiche e quattro vittorie agli Europei, peraltro garantendosi un ricambio generazionale continuo: della squadra vincente al Mondiale 2006, il solo Rudy Fernández era ancora in rosa in occasione della vittoria agli Europei 2022. 

Ma forse questa è un po’ la rappresentazione perfetta dei piani alti dello sport italiano, non solo del basket: un mondo gattopardesco dove girano sempre gli stessi nomi, dove i risultati non sono un parametro per giudicare l’operato dei dirigenti, dove ancora si parla a sproposito di “dilettantismo” in campionati come la serie A2, e dove non ci si candida contro il regnante perché è meglio non bruciarsi e aspettare il proprio momento, che come per Giovanni Drogo nel Deserto dei Tartari potrebbe anche non arrivare mai. Ma va bene così, va bene anche la gestione delle serie minori, quelle affidate ai comitati regionali, che riformano i campionati (prima avevamo Serie B, Serie C Gold, Serie C Silver, serie D; oggi abbiamo serie B nazionale, serie B interregionale, Serie C unica, Divisione Regionale 1, eccetera) e le formule (per fare un esempio: in B interregionale lo scorso anno dopo la stagione regolare c’era play-in gold, play-in silver e play-out, 4 squadre in ognuno; adesso c’è play-off e play-out, 6 squadre in ognuno. Con incroci con altri gironi. Se non ci avete capito niente, siete in buona compagnia.

A complicare ulteriormente il quadro, ci si è messa anche la (necessaria, va detto) applicazione del cosiddetto “Decreto Spadafora”: tutti i giocatori dei settori giovanili, al 30 giugno di ogni anno, si svincoleranno automaticamente, ad eccezione delle categorie con annate “doppie”, cioè Under 17 e Under 19, in cui saranno possibili tesseramenti biennali, concordati però a inizio del biennio. Di fatto, facendo sparire la formula del “prestito” dei giocatori. Ma qui il punto vero è un altro, e lo è ormai da tempo: il basket italiano sforna pochissimi giocatori di livello continentale, è restio al fargli “fare le ossa” nella massima serie, preferendo giocatori di formazione USA generalmente al di sopra dei 27-28 anni, giudicati “più pronti”, col risultato che i nostri giovani con maggiore potenziale vengono spediti nelle serie minori, dove sostanzialmente non possono migliorare perché non competono contro giocatori più forti di loro e dove al tempo stesso gli verrebbe chiesto, in virtù del loro status di “astri nascenti”, di fare la differenza senza sbagliare mai o quasi.

E dire che non dovrebbe essere tanto difficile, ricordarsi di Carlton MyersGregor FučkaGianluca BasileAndrea Meneghin: tutti già aggregati alla prima squadra, in serie A1 o A2, a 18 anni, chi più chi meno. O, se preferite, di Dino Meneghin, già con Varese a 16 anni. Il miglior modo per “farsi le ossa”, nello sport, è sfidando i migliori. Ma quando l’avremo capito, o meglio quando ce ne saremo ricordati, sarà tardi, ed è proprio il caso di dirlo: comunque, “meglio tardi che mai”.


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