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LeBron legacy

L’intera storia di James padre e James figlio che scendono in campo insieme è un’operazione dal potenziale commerciale enorme

di Roberto Gennari

22 ottobre 2024, Crypto.com Arena, Los Angeles, California. Mancano 4 minuti e 10 secondi alla fine del secondo quarto della partita tra i Los Angeles Lakers e i Minnesota TimberwolvesJ.J. Redick, alla prima da capoallenatore di una squadra NBA, chiama un doppio cambio: escono Rui HachimuraGabe Vincent, entrano LeBron Raymone James e LeBron Raymone James (junior). No, non è un errore di battitura: per la prima volta nella storia della NBA, in una partita ufficiale giocano insieme un padre (LeBron James, per comodità chiamato “King” James per motivi che sarebbe troppo lungo e probabilmente inutile spiegarvi) e un figlio (Bronny James, oltre 8 milioni di follower su Instagram, già McDonald’s All American nel 2023, dato come uno dei migliori 20 liceali della nazione nello stesso anno, reduce da una stagione in NCAA tutt’altro che memorabile e chiamato al draft con la scelta numero 55 dai Lakers). Le malelingue diranno che è un’operazione giostrata, voluta e gestita interamente dallo stesso LeBron, capace di mettere in pratica quello che è un po’ il sogno di tutti i padri che giocano a basket, e che quasi sempre per colpa di father time non si riesce a fare. Sogno che, in un certo senso, era già stato anticipato dal film Space Jam – A new legacy (una nuova eredità, che, vai a capire perché, in Italia è diventato Space Jam – New legends): c’era LeBron e c’era il figlio, e a un certo punto del film devono giocare insieme per riuscire a vincere una partita e tornare sul nostro piano della realtà.

In Italia avevamo avuto Dino e Andrea Meneghin, in campo da avversari nel 1990, con Dino quarantenne centro dell’Olimpia Milano e Andrea sedicenne guardia-ala in forza alla Pallacanestro Varese, ma non era esattamente la stessa cosa, anche se comunque la cosa aveva avuto un suo fascino e una certa eco mediatica al tempo. Il punto però è che non è rilevante capire se LeBron James Sr. sia stato o meno il regista della faccenda, che certamente presenta qualche aspetto un tantino strano, primo tra tutti il contratto firmato dal pargolo di casa James: 4 anni, di cui 3 garantiti, a poco meno di 2 milioni di dollari l’anno. Ora, posto che 2 milioni all’anno per la NBA non sono un salario monstre – Steph Curry, per dire, ne guadagnerà quasi 56 per la stagione appena iniziata – la stranezza sta nel fatto che un giocatore scelto al secondo giro del draft, e che non sembrava aver fatto vedere chissà cosa anche in pre-season, abbia avuto 3 anni di contratto garantito, un lusso che quasi nessuno tra quelli chiamati così in basso riesce ad avere.

Il punto, dicevamo, è che ovviamente l’intera storia di James padre e James figlio che scendono in campo insieme è un’operazione dal potenziale commerciale enorme. Per dare un’idea della portata della cosa, perfino il Tg1, solitamente non proprio prodigo di fornire notizie relative al basket, per usare un eufemismo, ne ha parlato: è ragionevole pensare che l’hype generato dalla coppia dei due James abbia già fruttato ai Lakers ben più dei quasi 6 milioni di dollari in 3 anni che sicuramente dovranno erogare al figlio del Re. In termini di merchandising venduto, contratti pubblicitari, visibilità sui social media e tutto quello che volete voi. La NBA, come un po’ tutte le leghe dello sport americano, è innanzitutto entertainment, vendita di un prodotto, e in quanto tale ha sempre bisogno di nuove storie da poter raccontare ai propri consumatori, gli spettatori delle partite. Che fanno il gioco dei Lakers anche quando commentano un post per dare del raccomandato a Bronny: più commenti, più interazioni, più visibilità dei post stessi, dibattito che si polarizza tra schieramenti opposti, benché quasi unanimemente concordi sul giudizio tecnico sul giovane (che ad oggi pare palesemente non pronto per giocare a basket in NBA, né ad alti livelli né con uno spazio da comprimario): “lasciatelo giocare, è giusto per lui provarci” da un lato, “è un raccomandato che toglie spazio a qualcuno che pur meritando di più è rimasto fuori dalla porta”. Altre interazioni, altro parlare dei Lakers dentro e fuori le bolle social di riferimento, altri soldi che entrano.

E così, in nome dell’entertainment, sappiamo ad esempio quello che LeBron ha detto a Bronny prima che entrambi entrassero in campo, con i Lakers avanti 51-35 contro i T’Wolves. “You’re ready? See the intensity? But play carefree though. Don’t mind mistakes, just play hard”. Abbiamo vivisezionato ogni singola giocata di quei 2 minuti e 41 secondi in cui è stato in campo Bronny: il rimbalzo offensivo sul tiro da tre punti sbagliato da Anthony Davis, il tentativo di convertire in due punti frustrato dalla stoppata di Rudy Gobert, il tiro da tre sbagliato, la sostituzione prima della fine del quarto. Nel tempo in cui è stato in campo Bronny, Minnesota ha piazzato un parziale di 7-2, alla fine ininfluente perché comunque i Lakers si sono portati a casa la vittoria grazie soprattutto ai 36 punti e 16 rimbalzi di un incontenibile Anthony Davis, che per ironia della sorte nel già citato Space Jam – A new legacy giocava in squadra insieme al figlio di LeBron James prima che quest’ultimo decidesse di cambiare squadra e passare in quella dei Looney Tunes. La scelta dei Lakers di mettersi in rosa Bronny James, insomma, ha tutta l’aria di una di quelle mosse di cui si può dire “comunque vada sarà un successo”. Se non sul campo, negli estratti conto.

Poco cambia, per una franchigia che secondo Forbes ad oggi vale oltre 7 miliardi di dollari. Capace, in questo, di sopravanzare e non di poco gli acerrimi rivali dei Boston Celtics, fermi ad “appena” 6 miliardi. Siamo di fronte a un paradigma nuovo per gli standard dello sport professionistico mondiale, dove perfino la meritocrazia si piega davanti alle logiche del profitto. O forse, più che piegarsi, fa appena appena un piccolo inchino, una piroetta, per poi tornare al punto di prima. LeBron in campo, Bronny in panchina, ininterrottamente per tre partite da quei 2 minuti e 41 secondi di quel 22 ottobre 2024 in cui, volenti o nolenti, con buona pace dei detrattori del padre e del figlio, si è scritto un pezzetto di storia della NBA. Il primo canestro è arrivato solo alla quinta partita dei Lakers, a 2 minuti dalla fine e coi gialloviola sotto di 22 punti. E di nuovo titoli, articoli, contenuti social. A rimarcare ancora una volta che si può vincere anche quando si perde.


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