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La magia dei Giochi è finita, andiamo in pace

La normalità è quella dello sport raccontato e trasmesso secondo le leggi di mercato e dello sport praticato grazie all’intreccio di coincidenze piuttosto che all’abbondanza di opportunità

di Antonella Bellutti

La magia dei Giochi Olimpici e Paralimpici è finita, andiamo in pace. O meglio, mettiamoci il cuore in pace, perché torneremo alla normalità. La normalità è quella dello sport raccontato e trasmesso secondo le leggi di mercato e dello sport praticato grazie all’intreccio di coincidenze piuttosto che all’abbondanza di opportunità. Perciò dovremo impegnarci a fondo per trovare immagini delle discipline che abbiamo imparato a conoscere. Dovremo penare per cercare notizie degli atleti di cui ci siamo innamorati. I bambini che hanno visto i loro beniamini in azione vorranno provare il ciclismo su pista, la canoa fluviale, il breaking, il badminton e i loro genitori dovranno impazzire per informarsi, per cercare società che permettano l’avviamento, per fare chilometri e chilometri per portarli all’allenamento. Tutto inesorabilmente tornerà come prima anche se, ogni volta, si dice che no, sarà diverso!

Che costruiremo un velodromo, che aumenteranno le piscine, che le società verranno aiutate, che lo sport scolastico riprenderà vita. E invece sappiamo bene che questa storia si ripete ciclicamente ogni 4 anni.

Perché hai voglia a vincere medaglie, a lanciare nuovi personaggi nell’orbita del sistema sportivo ma poi, finita la magia niente può cambiare se le persone che possono farlo sono sempre le stesse. Certo il tennis è cresciuto e crescerà grazie ai suoi campioni. Così come un tempo accadde allo sci con la valanga azzurra e rosa. Ma sono fenomeni legati alla forza trainante di uno o più campioni.

Le politiche attive, quelle che servono per creare le opportunità, affinché lo sport per tutti diventi la salute della società italiana e il terreno fertile su cui potranno crescere gli atleti che vinceranno le medaglie, quelle dove sono?

Difficile pensare che questo accada se il modello di gestione resta sempre forgiato a immagine e somiglianza della medesima classe dirigenziale appoggiata alla specializzazione precoce e ai gruppi sportivi militari.

Possiamo davvero credere che lo sport italiano colmi le sue lacune se al comando restano le stesse persone che le hanno create o (per dirlo con altre parole) che non le hanno viste?

Nell’ultima tornata, nel 2021, ci sono state delle novità come l’elezione di Stefano Mei a capo dell’atletica leggera o l’avvento delle prime due donne alla presidenza di una federazione nazionale dopo oltre cento anni di storia dello sport italiano e più di 800 ruoli da presidente assegnati: Antonella Granata nello squash e Laura Lunetta nella danza sportiva. C’è anche qualche altro giovane presidente ma lo zoccolo duro è … ben saldo e fermo al comando.

Vale la pena ricordare alcuni dettagli per sottolineare che trattasi di una condizione oggettiva e non di una visione stravagante o di parte.

Nove dei presidenti attualmente in carica hanno accumulato complessivamente un quarto di secolo di reggenza. Tra le 48 federazioni sportive nazionali abbiamo infatti un record di 8 mandati a testa per Sabatino Aracu e Luciano Rossi, in carica dal 1993 rispettivamente alla rotellistica e al tiro a volo. Speciale il caso di Gianni Petrucci: per lui già cinque i mandati da presidente della pallacanestro e pronto a ripresentarsi, a cui vanno aggiunti i tre mandati e mezzo da presidente del CONI (il mezzo si riferisce al subentro a Mario Pescante che lasciò a metà l’incarico a causa dello scandalo del laboratorio antidoping dell’Acqua Acetosa). Ci sono poi altri presidenti, per così dire, ‘esperti’ che stanno volgendo al termine del loro sesto mandato e sono in procinto di candidarsi per il settimo e sono: Vincenzo Iaconianni (motonautica), Franco Chimenti (golf), Angelo Binaghi (tennis), Ugo Claudio Matteoli(pesca sportiva e attività subacquee) e Mario Scarzella (tiro con l’arco).

Tra loro una menzione particolare per Paolo Barelli il primo a indire le elezioni per il nuovo quadriennio: sull’onda emotiva dei successi olimpici e paralimpici dei nuotatori azzurri, nel primo weekend di settembre è stato confermato per la settima volta presidente della FIN. Merita una menzione particolare perché il suo può considerarsi un caso di studio per la conoscenza delle peculiarità della dirigenza sportiva italiana. Innanzitutto sarebbe bene ricordarsi di lui quando tornerà alla ribalta il tema dell’autonomia dello sport dalla politica, usato o dimenticato a seconda dei casi, delle comodità e dei bisogni. Paolo Barelli, infatti, è anche parlamentare dal 2001 con incarichi in diverse commissioni (cultura, infanzia, vigilanza RAI, ecc.) e quale capogruppo di Forza Italia.

Niente di personale nei suoi confronti, anche perché non è l’unico a combinare ruoli politici con ruoli di dirigente sportivo ma rappresenta certamente un esempio di amnesia intermittente di cui lo sport soffre: sia per la persistenza del doppio ruolo in entrambi gli ambiti, sia per l’evidenza che l’autonomia dello sport dalla politica è solo uno slogan da ripetere in certe circostanze e ancora per l’evidente relazione con l’abrogazione della legge dei mandati presidenziali che li limitava a tre, sebbene non retroattivamente.

La velocità insolita, rispetto alla lentezza della macchina istituzionale, con cui ci si è disfatti di tale limitante seccatura legislativa (grazie anche al parere favorevole della Corte Costituzionale) sembrerebbe proprio da interpretare come una spallata partita da dentro la maggioranza di governo. Comunque per essere rieletti dopo il terzo mandato, ora è necessario il furor di popolo e quindi è stata stabilita la necessità di avere i due terzi dei voti validamente espressi. Unico ostacolo che poteva destare preoccupazione data l’assenza di candidati contendenti ma che, per Barelli è stato superato brillantemente, registrando una preferenza del 77,70%. A questo proposito è interessante da tenere sotto osservazione il fenomeno delle deleghe, ben 444 sui 1.137 partecipanti. Non un’accusa all’eletto bensì un’osservazione rispetto al fatto che, l’opportunità di delegare e l’indiscutibile ‘ratio’ a cui risponde, può diventare una ‘distortio’ quando è massiccia (tetto di 5 deleghe per ogni delegato di federazioni con più di 1.000 società) e la catena di sicurezza meno garantita. Forse in un domani non troppo lontano, dati i progressi tecnologici, immaginare di svincolare le elezioni dalla necessità della presenza potrebbe liberare il risultato elettorale dalla intermediazione delle deleghe.

Ultima prospettiva da cui guardare questo caso di studio è la tendenza ad avere più incarichi.

Per Barelli ad esempio gli impegni da onorevole in parlamento si sono sommati e intrecciati più volte con innumerevoli incarichi in organismi sportivi, internazionali di nuoto. Nei prossimi mesi si terranno tutte le assemblee elettive delle federazioni nazionali: teniamo presente il caso di studio per analizzare con attenzione i numeri e i fatti che caratterizzeranno la composizione dei nuovi organi elettivi. Compreso il rispetto delle quote antidiscriminatorie di genere, non scontato nonostante l’obbligatorietà. Ricordiamoci pure della natura mista delle federazioni, argomento che manterrà acceso il dibattito sulla “discriminazione” creata dalla legge dei tre mandati che resterà in vigore per CONI, CIP, ACI, Areoclub e Uits (unione italiana tiro a segno) in quanto enti pubblici.

Mesi in cui gli occhi, aperti dalla consapevolezza del caso di studio, potranno vedere quello che le notizie non dicono e comprendere meglio la vicinanza tra il sistema elettorale sportivo e l’avere santi in paradiso o anche meno. Però Paolo Barelli ne ha davvero: la sua prozia, Armida Barelli, beata per la Chiesa Cattolica e cofondatrice dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Amen!


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