di Roberto Gennari
Se dovessimo individuare una cartina al tornasole dello stato di salute del basket italiano, questa con ogni probabilità sarebbe Parigi. Parigi che ci ha detto che il basket italiano, complice anche una serie di sfortune di cui avevamo accennato prima dei Giochi Olimpici appena conclusi, non è ormai da tempo una nazionale di prima fascia. Non qualificati ai Giochi, come è capitato per ben 4 volte nelle ultime 5 edizioni. Da vent’anni non più a podio in nessuna manifestazione “senior” – l’ultimo acuto, l’argento olimpico del 2004, da un quarto di secolo non più sul gradino più alto del podio della rassegna continentale, l’ultima volta, e qui si chiude il cerchio, a Parigi nel 1999. In mezzo, in questo quarto di secolo, una “generazione di fenomeni” – ben quattro gli italiani nati tra il 1985 e il 1988 ad aver giocato in NBA – che mai ha reso secondo le aspettative; una gestione parsa a volte in balia delle onde del ruolo del capo allenatore della Nazionale; un evolversi – diciamo così per non offendere nessuno – cervellotico del massimo campionato italiano.
I fattori hanno un peso specifico diverso a seconda delle annate a cui ci si riferisce, in questo lasso di tempo, e sicuramente ce ne sono altri, meno ponderabili o meno visibili dall’esterno, ed è comunque sempre, innegabilmente e invariabilmente vero che in campo vanno i giocatori e se gli altri sono più forti c’è poco da fare: secondo una teoria abbastanza bislacca ma che è capitato di leggere da più parti, la pallacanestro italiana soffre la concorrenza della pallavolo perché molti atleti “alti” si orientano verso quest’altro sport, che magari è anche un dato vero, ma allora che facciamo? Possiamo quantomeno stabilire dei capisaldi dai quali è bene ripartire? Sì, questo possiamo farlo. E allora.
“Oh Rick, ma cosa ne sarà di noi?”
“Noi… avremo sempre Parigi!”
La federazione ha le sue responsabilità: dopo che il fondo è stato toccato probabilmente nel 2009, quando per la prima volta dal 1961 gli azzurri non si sono qualificati agli Europei, l’Italbasket guidata allora da Dino Meneghin sceglie di affidarsi a Simone Pianigiani, da tre stagioni consecutive dominatore della Serie A con l’inarrivabile Montepaschi Siena. Pianigiani manterrà il doppio ruolo di capoallenatore sia a Siena che in Nazionale. Avrà tempo di preparare al meglio la rinascita azzurra, perché l’assenza a Euro2009 significa automaticamente anche assenza al Mondiale dell’anno successivo. E invece, Euro2011 è un disastro totale: nonostante Bargnani, Belinelli e Gallinari gli azzurri rimediano una vittoria e quattro sconfitte, terminano nel gruppone delle classificate al 17esimo posto e dicono addio a Londra 2012. E da lì, gli unici acuti li vediamo durante la – immeritatamente e incomprensibilmente breve – gestione di Meo Sacchetti: eliminazione con onore al Mondiale 2019 per mano della Spagna, che poi quel mondiale andrà a vincerlo; vittoria al preolimpico di Belgrado eliminando la strafavorita Serbia in casa loro, e conseguente ritorno alla rassegna a cinque cerchi per la prima volta dal 2004; quinto posto ai Giochi, eliminati ai quarti dalla Francia poi finalista dopo essere stati punto a punto per quasi tutta la partita.
L’Europeo del 2022, che viene disputato in parte anche in Italia, ci vede però cambiare inaspettatamente rotta: via Sacchetti, si va con Gianmarco Pozzecco. L’ambizione, neanche troppo celata, è quella di tornare infine tra le prime 4 del continente, ma un girone disputato col freno a mano tirato ci mette in un tabellone infernale, dove troviamo la Serbia agli ottavi, e la battiamo di nuovo, per poi soccombere di nuovo contro la Francia, ai quarti. L’anno dopo c’è il Mondiale, stavolta però bisogna passare attraverso le qualificazioni. Passiamo. Battiamo di nuovo la Serbia, salvo poi venire ignobilmente piallati dagli Stati Uniti, ancora una volta, l’ennesima, ai quarti di finale. E siamo al presente. In questo excursus sono state saltate, per amor di brevità, numerose tappe, ma c’è una costante. A parte la Serbia, della quale siamo evidentemente la bestia nera, quando arriviamo a scontrarci contro una nazionale di prima fascia, che sia la Spagna, la Francia o gli USA, perdiamo quasi sempre. E non può essere un caso: c’è un divario tecnico ormai evidente. Che la Spagna abbia avuto la sua generación dorada, analogamente a quanto avvenuto nel calcio, non può essere solo frutto del caso. Gli iberici, prima del 2009, non avevano mai vinto un campionato europeo. Adesso ne hanno 4, il doppio dei nostri. Prendendo in esame i 25 anni che ci separano dall’ultimo oro del nostro basket, oltre ai 4 titoli continentali hanno vinto due Mondiali e sono andati tre volte a podio olimpico. La Francia, che ha vinto il suo primo e finora unico titolo continentale nel 2013, negli ultimi 25 anni è andata altre 4 volte a podio agli Europei, ha giocato tre volte la finale olimpica ed è arrivata due volte terza ai Mondiali. La Germania è andata per tre volte in semifinale agli Europei, ha vinto un Mondiale, arrivando terza in un’altra occasione, e ha appena disputato una semifinale olimpica. Questo ovviamente in aggiunta alle altre nazionali che da sempre sono da considerarsi competitive: Grecia, Russia, Lituania e quasi tutte quelle del blocco della ex-Jugoslavia, soprattutto Slovenia e Serbia. Ma se alcune squadre ci sono sempre state, per così dire, le altre ci hanno superato e sarà difficilissimo riguadagnare il terreno perduto.
Come fare? Difficile dirlo. Certo è che nei tornei giovanili andiamo meglio di quanto non si faccia in quelli senior: nell’Under 20 abbiamo vinto l’europeo nel 2013 dopo essere arrivati in finale nel 2011. Alcuni di quella squadra sono poi stati presi dalla Nazionale maggiore, altri si sono persi per strada, altri ancora sono stati snobbati per scelta tecnica. A luglio di quest’anno, poi, abbiamo ottenuto un meraviglioso secondo posto al Mondiale Under 17. Solo che poi, per gli astrusi meccanismi che regolano gli sport di squadra in Italia, il giovane promettente viene mandato a farsi le ossa nelle categorie minori, a meno che non sia clamorosamente più forte della media (come è stato per i già citati Bargnani, Belinelli e Gallinari), o viene lasciato a marcire in fondo alle rotazioni in panchina, finché magari non si rompe le scatole e viene ceduto all’estero (vedi Datome, Melli e Fontecchio, altri tre che dalla NBA ci sono passati): quasi mai si affidano le chiavi di una squadra a un giovane, a maggior ragione se non americano di formazione. Il giovane non viene mai lasciato libero di prendersi una responsabilità in più, e tantomeno di giocarsi i possessi decisivi, quelli che ti fanno vincere o perdere una partita. Così si arriva ai tornei “grossi” con gente palesemente non abituata a stare in campo in certi contesti, non potendo ruotare tutti gli effettivi a disposizione, cosa questa di fondamentale importanza in tornei dove si gioca quasi tutti i giorni e in un basket come quello odierno in cui si va a mille all’ora, e arrivando ai finali di partita coi nostri uomini migliori in debito d’ossigeno. E così si va avanti in loop, come se fosse il giorno della marmotta, da ormai un quarto di secolo. Ma noi avremo sempre Parigi, giusto?
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Roberto Gennari classe 1979, mancino, nato in agosto. Praticamente Michael Redd, stipendio e palmarès a parte. Ha un blog cestistico ipofrequentato dal 2006, scrive di basket per La Giornata Tipo e Overtime – Storie a Spicchi, di sport per Crampi Sportivi e di calcio per Amaranto Magazine. Ha due figli, e questa è la sua principale attività sportiva. Ha pubblicato con Ultra Edizioni, Bradipolibri Editore e Battaglia Edizioni.