Il rapporto della Nazionale con l’Europeo non è mai stato brillante. Dal gran rifiuto della prima edizione, 1960, prima di raggiungere un equilibrio sono passati trentasei anni: per cinque volte non si è qualificata e nel mezzo un quarto posto, una semifinale e la vittoria del ’68. In questi ultimi ventotto anni, invece, gli azzurri si sono sempre qualificati per la fase finale, hanno fatto tre finali e vinto l’edizione del 2021, posticipata a causa della pandemia. In generale, la Nazionale dopo una vittoria paga dazio. Lasciando stare i due Mondiali degli anni ruggenti, dopo il 1968 non si è qualificata all’Europeo del ’72, dopo il Mondiale dell’82 ha mancato la qualificazione europea dell’84 e al Mondiale successivo è uscita agli ottavi di finale. Peggio ancora dopo il 2006 con due eliminazioni al primo turno e due mancate qualificazioni, lì dove ci eravamo sempre qualificati a parte il ’58.
Nel frattempo il calcio è cambiato, anche quello italiano che non sembra più capace di produrre generazioni di giocatori straordinari come nei decenni passati; l’ultima grande generazione è stata quella del 2006. Questo, però, non ha impedito a Roberto Mancini di vincere l’Europeo, il secondo della storia azzurra, con una squadra tecnicamente inferiore se confrontata con formazioni del passato, anche recente. Una vittoria definita contro culturale perché, al di là di alcuni limiti tecnici, l’Italia ha messo in campo, oltre la sua tradizionale forza difensiva, una padronanza del gioco e un’attitudine all’attacco nuove. Ad Antonio Conte, nel 2016, è toccata forse la rosa meno pregiata tra quelle della Nazionale, ma questo non gli ha impedito di giocarsela con la Germania campione del mondo in carica, uscendo solo ai calci di rigore.