di Roberto Gennari
Due settembre 1995. Col senno di poi, l’inizio di un’era. Non solo per una fin lì non certo gloriosa franchigia di basket della Florida, fondata appena sette anni prima, più che altro per colmare una lacuna: era l’unica città delle prime 10 per popolazione dell’area metropolitana a non avere una propria squadra NBA. L’avvento a Miami di Pat Riley, già stella in panchina coi Los Angeles Lakers di “Magic” Johnson, Kareem Abdul-Jabbar e James Worthy (un titolo NBA da vice allenatore e 4 da head coach, più altre tre apparizioni alle finali NBA) e poi dei New York Knicks, da lui guidati a una sola partita dal titolo, perso per 4-3 contro gli Houston Rockets nell’anno sabbatico di Michael Jordan, fece immediatamente drizzare le antenne al dorato mondo della pallacanestro a stelle e strisce: che ci veniva a significare, per dirla con Camilleri, uno degli allenatori più quotati della Lega negli ultimi 15 anni in una squadra che era stata fin lì poco più di una barzelletta, per di più in una città nota prevalentemente per la vita notturna e la villeggiatura?
La miseria di due apparizioni al primo turno dei playoff in sette anni, fuori in entrambi i casi al primo turno, e tanta mediocrità, nonostante qualche talento fosse passato di lì: gente tipo Rony Seikaly, Steve Smith, Glen Rice.
Ecco, arriva Pat e il vento cambia, lo si capisce da subito: via Rice, attaccante sopraffino ma non un cuor di leone, e al suo posto dagli Charlotte Hornets arriva Alonzo Mourning, prima pietra miliare della storia degli Heat (e primo giocatore ad avere l’onore del ritiro della maglia, nel marzo del 2009). Dall’Europa, si pesca Sasha Danilovic, certo atleta non eccelso ma dalla durezza mentale non seconda a nessuno, vincente clamoroso con la maglia della Virtus Bologna, sia prima che dopo la parentesi NBA. A fine dicembre, dalle sabbie mobili della CBA, lega minore per antonomasia di quegli anni, a…