di Roberto Gennari
Soprattutto in concomitanza con il lockdown, abbiamo assistito a un dibattito, fatto per lo più di dichiarazioni roboanti e carte bollate, sulla necessità, per poter avere un modello di calcio inteso come show televisivo, di istituire una ‘Superlega’ europea: un campionato, cioè, in cui il merito sportivo non sia l’unica discriminante per la partecipazione all’edizione successiva. Un qualcosa che trova un senso sul piano puramente economico e finanziario, nel senso che per un potenziale investitore è ovviamente più rassicurante mettere dei soldi, soprattutto se sono tanti, in un club sportivo che magari quel particolare anno disputa la Champions League, sapendo che, vada come vada, anche negli anni successivi la squadra farà parte comunque dello stesso torneo, anche se magari dovesse incappare in un’annata particolarmente storta.
Siamo consapevoli che è una barriera soprattutto culturale, infatti il ‘partito del no’ utilizza come risposta tipica «qui non siamo nella NBA» (o in uno dei qualsiasi campionati dei quattro major sportsUSA, cioè, oltre al basket, anche il football americano, il baseball e l’hockey su ghiaccio).
Vero, e tuttavia è altresì vero che negli States il sistema di questi campionati si basa sulla creazione di franchises che vengono attribuite dalla lega di riferimento a una città, sulla base di studi di mercato e candidature pervenute. Una concezione diversa di sport, ma rassicurante per gli investitori (andatevi a vedere per quanti soldi sono stati comprati i Golden State Warriors e quanto valgono oggi, poi ne parliamo). Ma torniamo di qua dall’Atlantico. L’Eurolega, dicevamo, che ha preso il via la scorsa settimana. Si tratta di una formula ‘ibridat…