Dick Fosbury è morto lo scorso 12 marzo, ed è morto da immortale. Non c’è nemmeno bisogno di ricordare chi sia, perché il suo nome è diventato leggenda per un gesto che ha cambiato uno sport, nel caso di specie il salto in alto, entrando nell’immaginario collettivo anche di chi, di sport, s’interessa pochissimo. Di Fosbury e di altri Rivoluzionari in campo (tra i quali Axel Paulsen, Jean Vuarnet, Dutch Sam) scrisse il nostro Roberto Brambilla una manciata di anni fa: gente che ce l’ha fatta, che in qualche modo ha lasciato traccia per un’idea, un gesto. Ma non a tutti coloro che hanno inventato qualcosa è andata bene.
Non andò bene, per dirne una, a Tuariki Delamere, l’uomo che avrebbe potuto diventare il Fosbury del salto in lungo – con il suo salto con capriola, efficace ma poi vietato: ne ha scritto qui Nikhil Jha – ma non è riuscito nell’intento perché, in definitiva, il mondo dello sport non è incline al cambiamento, e quando un singolo, specie se privo di sponsor, utilizza il pensiero laterale e inserisce qualche novità sorprendente senza superare i limiti del lecito, non di rado bandisce la novità. Così, se Fosbury è diventato l’esempio di una rivoluzione, una trentina abbondante di anni fa le piste e le strade – ma soprattutto le piste – del ciclismo hanno visto e vissuto la breve epopea di un atleta che non era né un fenomeno né un fuoriclasse, e a dirla tutta nemmeno è mai diventato professionista, ma ha costretto il …