di Guglielmo De Feis
Negli ultimi sette-otto anni, il dibattito nel calcio italiano ha assunto una connotazione quasi filosofica, nel momento in cui ha cercato di trovare una definizione oggettiva di “bel gioco”. Si è cercato, in pratica, di separare la prospettiva matematica del risultato, da quella estetica della maniera di giocare, provando, al contempo, a codificare un ipercanone che definisse la bellezza semplicemente secondo il gusto, a prescindere dall’aspetto sentimentale, quello che per i tifosi coincide con vittoria o sconfitta.
Ripetendo – crediamo inconsapevolmente – il dibattito settecentesco sul gusto e la nascita dell’estetica, gli opinionisti e gli editorialisti del calcio (tra gli altri, si sono particolarmente distinti in questo esercizio, Daniele Adani e Arrigo Sacchi) hanno sostenuto che il gusto calcistico non fosse determinabile solo dalla soggettività dell’individuo, ma che vi fosse anche la necessità di modellare teoricamente questa definizione.
Si è cercato – e lo si sta tutt’ora facendo – di mettere in luce oltre alla dimensione individuale del gusto, anche quella culturale. Ecco quindi che a prescindere dalla personale concezione di bellezza, di ogni tifoso, si è teorizzato che sotto il profilo culturale il “bello calcistico” sarebbe determinato dal gioco “in palleggio con possesso palla”, come insegnato al mondo, in successione per tre decadi consecutive, dall’Olanda di Michels, dal Milan di Sacchi e dal Barcellona di Cruyff prima e Guardiola dopo.
Il modo di giocare delle squadre di que…