Ieri era Lukaku, oggi è Vlahovic, domani chissà. L’unica certezza è che nuovi cori ed episodi razzisti arriveranno: nei grandi stadi o nelle piccole palestre, nei campi di periferia o nei palasport, anche laddove non ci sono telecamere. Arriveranno. Perché sì: siamo razzisti. E siamo pure terribilmente ipocriti quando lo neghiamo.
Possiamo dire che non lo siamo noi, non lo siete voi che ci leggete, perché il razzismo è abietto, abominevole, però che diamine: esiste, vive, lotta insieme a noi e si alimenta nella politica (seriamente: c’è un ministro che ha parlato di “sostituzione etnica”, non basta?), nell’ignoranza (per dire: non è che “slavo” significhi “zingaro”…) e persino nel politically correct (non è che dicendo “gitano” al posto di “zingaro”, in Rai, si utilizzano le parole giuste) che ridicolizza significanti e significati. Di curve e logiche da branco abbiamo scritto nell’ultima monografia qui, qui e qui