Como, Fiorentina, Inter, Juventus, Milan, Parma, Roma, Sampdoria, Sassuolo: non fosse per Pomigliano, nata per arrivare lassù nel 2019, la Serie A del calcio femminile 2022-23 sarebbe popolata solamente di club in qualche modo diretti dalle società maschili, esattamente ciò che per anni si è auspicato per far crescere il pallone delle donne nel nostro Paese. Il che, effettivamente, ha generato un impulso reale che ha portato a uno sviluppo tardivo ma concreto: non avesse iniziato la Juventus, forse staremmo a parlare di un mondo ancora incredibilmente indietro e ancora lontano anni luce dai modelli europei. Per raggiungere questo livello, tuttavia, il calcio femminile ha dovuto sacrificare qualcosa. Un qualcosa che, in realtà, è tantissimo, ovvero una parte rilevante della sua storia.
Una storia povera, senza lustrini, paillettes né sponsor, fatta di campi di periferia, quando non proprio di campagna, di quando gli sponsor non guardavano il calcio femminile con interesse, le tv meno che mai e per la federazione si trattava di «quattro lesbiche». Era il calcio del Mozzanica, del Tavagnacco, del Chiasiellis, quello del Bardolino Verona, del Torino che non c’entrava nulla con quello di Cairo e aveva sede a Pianezza, e ancor prima del Fiammamonza (ricordate? Vi giocò anche Susana Werner, ai tempi fidanzata del brasiliano Ronaldo), della Vigor Senigallia, dell’ACF Milan che non era il Milan di oggi, proprio per nulla. Ancora nel 2016-17 l’unico club della Serie A maschile coinvolto nella A femminile era la Fiorentina, nata nel 2015, mentre le altre protagoniste del campionato erano Agsm Verona, Brescia, Chieti, Como 2000, Cuneo, Jesina, Luserna, Mozzanica, Res Roma, San Zaccaria e Tavagnacco: squadre in alcuni casi storiche, ma di difficile collocazione anche sulla cartina geografica, p…