Tackle

Maledetto Mandela

Smettiamo di illuderci che lo sport abbia il “potere di cambiare il mondo” e cominciamo a considerarlo semplicemente uno dei tanti campi di battaglia in cui chi vuole migliorarlo può agire

di Nicola Sbetti

Lo scorso 13 marzo, la Lega Serie A, ha reso noto che, a partire dal 2024, nei successivi sei anni quattro edizioni della Supercoppa italiana maschile di calcio si svolgeranno (nuovamente) in Arabia Saudita. La notizia ha comprensibilmente suscitato un’ondata di indignazione nella stampa e nell’opinione pubblica italiana. Certo, a conferma della teoria espressa da Marco Paolini nel suo spettacolo teatrale su Ustica secondo cui «a noi italiani l’indignazione dura meno di un orgasmo», dopo qualche giorno l’ondata era già in gran parte rientrata, pronta però a risollevarsi alla vigilia dell’evento. L’indignazione, del resto, vende molto di più della prevenzione.

Le ragioni che hanno portato a questa legittima sollevazione sono molteplici. Alcune, come ad esempio: la frustrazione per l’impossibilità di seguire facilmente dal vivo la propria squadra, la constatazione dell’ennesimo svilimento del “prodotto-calcio” in cambio di pochi riyal, il disagio di prestare il proprio palcoscenico a un governo autoritario gravemente lacunoso nel rispetto dei diritti umani, sono più che comprensibili. Altre, sono invece più stigmatizzabili. Non si può infatti negare che nella critica alle ennesime trasferte saudite della supercoppa ci siano talvolta anche tracce di etnocentrismo, di razzismo, e di islamofobia.

Al di là di queste considerazioni, però, appare lampante che poche cose come lo sport in generale, e lo sport in particolare, siano in grado di accendere i riflettori sulle relazioni italo-saudite. Perché ci si indigna di più del fatto che la Lega di Serie A abbia deciso di andare a disputare la supercoppa italiana in Arabia Saudita, mentre altre forme …