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Utopie e vecchi difetti

L’architetto Antonio Cunazza ci spiega perché gli stadi di proprietà pubblica sono un problema e quali esempi virtuosi andrebbero seguiti

L’Italia e la Turchia, al momento, sono le uniche due nazioni candidate a ospitare l’Europeo di calcio del 2032, ma qual è lo stato dell’arte degli stadi italiani? Per comprendere meglio la situazione The SpoRt Light ha intervistato Antonio Cunazza, torinese, classe ’83, laureato in Architettura e Restauro con una tesi sull’evoluzione dello stadio calcistico nel Novecento; da oltre dieci anni si occupa di ricerca e divulgazione nel campo dell’architettura sportiva. È redattore per la rivista specializzata TSPORT – Sporteimpianti e collabora regolarmente con Cronache di Spogliatoio e Il Giornale dell’Architettura; fotografo sportivo, ha scritto il libro Wembley, la storia e il mito (Urbone Publishing, 2021).

Qual è lo stato dell’arte degli stadi italiani?
«Definirei la situazione “in un limbo”: i club e l’opinione pubblica hanno capito molto più tardi – rispetto al resto d’Europa – il valore delle infrastrutture sportive e del loro rinnovamento, e a questo ritardo si aggiungono un’atavica difficoltà decisionale (da parte delle istituzioni locali) e le poche risorse economiche a disposizione dei club».

La maggior parte sono di proprietà pubblica: è un male o un bene?
«È fondamentalmente un problema, perché gli stadi e gli impianti sportivi ormai devono essere parte integrante del rinnovamento delle città e vanno messi al servizio delle persone: la proprietà pubblica li incastra in un dialogo fra Comuni e club che, almeno in Italia, non è quasi mai costruttivo ma è piuttosto un terreno di scontro».

Confrontando quei pochi di proprietà, qual è il progetto meglio realizzato rispetto al club di appartenenza?
«Se prendiamo i …

Francesco Caremani
Aretino, giornalista, comunicatore in ordine sparso. Tutto è iniziato il 19 marzo del 1994 e un giorno finirà, ma non oggi. Il giornalismo come stile di vita, in un mestiere che ha perso lo stile per strada. Qui è direttore responsabile, ma solo per anzianità.