L’argomento ci interessa ed è uno di quelli che si presta a evidenziare l’estrema distanza tra il calcio ideale e quello reale. E la sottolinea ancora maggiormente considerando il contesto di cultura sportiva nel quale ci si muove, nel nostro caso quello italiano, dove certe buone idee si fa di tutto per ucciderle nella culla, sebbene poi si racconti l’opposto. Leviamoci il dente subito, allora: i supporters’ trust – il modello gestionale di cui trattiamo in questa monografia, anche se giuridicamente la definizione di trust non è perfetta, per quanto accettata – nel calcio italiano non hanno un futuro, e non lo avranno sino a quando le regole del gioco (quelle finanziarie soprattutto) saranno queste. Un minimo differente può essere considerata la situazione degli altri sport di squadra ma, in fondo, il ragionamento non si discosta granché.
Non staremo qui a elencare ciò che accade in Europa, a magnificare il modello tedesco – certo di grandissimo interesse e capace di proteggere sé stesso e le sue peculiarità – o alla particolare gestione di club spagnoli quali il Real Madrid o il Barcellona, né alle esperienze più strutturate dei supporter trust dei club inglesi: serve capire immediatamente che, come non si può pensare di introdurre da noi un sistema a franchigie o una lega chiusa sul modello nordamericano, allo stesso modo è impensabile modificare un secolo – potremmo quasi farlo coincidere con l’acquisizione della Juventus da parte della famiglia Agnelli, nel 1923 – in cui l’elite del calcio italiano si è evoluta seguendo un modello che è passato dal mecenatismo alla finanza, con il modificarsi via via della legislazione di riferimento e la crescita degli interessi economici, determinata quest’ultima dall’aumento del settore e dall’integrazione con altri mercati, come ad esempio quello del broadcasting e della pubbli…