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Libero Totti in libera propaganda. Da che parte stare?

Il viaggio di Totti a Mosca ha scatenato indignati e permissivisti libertari. Ma nella filigrana della sua presenza in Russia si può leggere qualcosa in più

di Nicola Sbetti

Sul viaggio di Totti a Mosca sono già state spese innumerevoli quantità di inchiostro e non mi voglio unire né al coro degli indignati, né a quello dei permissivisti libertari. Tutt’al più, specie osservando i tristi palleggi fatti con l’ex trequartista del Celta Vigo Aleksandr Mostovoj in un mini cartonato a forma di Colosseo sponsorizzato con due piccole porte alle estremità, ci si può limitare a constatare quanto possa essere difficile per un campione del calibro di Totti, avere un post-carriera all’altezza di quanto fatto in campo.

Però, piuttosto che rimuginare sul declino dell’immagine pubblica di Totti, può essere utile tornare sulle sue dichiarazioni rilasciate all’ANSA il 25 marzo scorso con cui ha deciso di giustificare la propria scelte:

Il mio viaggio di lavoro a Mosca, da giorni, suscita infinite polemiche. Ma io non sono un politico né un diplomatico, sono un uomo di sport che ne promuove i valori in giro per il mondo. L’ho sempre fatto: prima come calciatore e adesso in una nuova veste. Da anni vado in tutti i Paesi in cui mi invitano a parlare di sport e non avrei problemi ad andare a Kiev, per le stesse finalità. Detto questo, se mi arrivasse una richiesta da parte di un organo competente per non partecipare all’evento di Mosca non esiterei un momento a fare un passo indietro. Tutto il resto trovo che siano solo ipocrisie e speculazioni di chi vuole trarre visibilità attraverso il mio nome.

Francesco Totti da cittadino di un paese democratico come l’Italia ha liberamente deciso di intraprendere un ben retribuito viaggio in Russia promosso da un’agenzia di scommesse per ricevere un premio che poco aggiunge a quelli assai più prestigiosi che ha in bacheca. Una scelta assolutamente legittima che però, altrettanto legittimamente, ha suscitato un vespaio di critiche. Sorprendersi che ciò sia avvenuto vuol dire essere in malafede o, più probabilmente, degli ingenui. Totti infatti ha un profilo pubblico altamente visibile e ciò che fa non passa inosservato. Nemmeno fare appello ai cosiddetti “valori dello sport” può essere una soluzione. In primo luogo perché i valori dello sport non sono assoluti ma si adattano al contesto socio-politico in cui esso viene praticato. Di conseguenza è comprensibile che molti ammiratori di Totti si siano sentiti a disagio nel vederlo associato ad un’agenzia di scommesse, su cui pesano anche accuse di riciclaggio di denaro, e soprattutto a un regime autoritario che da oltre tre anni sta portando avanti una guerra di invasione nei confronti dell’Ucraina. In seconda battuta perché, checché ne dica Totti, la scelta di recarsi a Mosca ha contribuito, volente o nolente, a legittimare il governo di Putin che in questo momento è sotto sanzioni da parte del governo italiano.

In tempo di guerra, infatti, gli spazi di neutralità si riducono drasticamente e il fatto di essere andato a Mosca, pur dichiarando di non aver problemi ad andare a Kiev, è stata una scelta. Dopodiché è evidente che anche tutti coloro che si sono spesi pubblicamente per chiedere a Totti di non andare a Mosca lo hanno fatto strumentalizzando la visibilità dell’ex capitano giallorosso per dei fini politici, ma i primi a voler trarre visibilità dal suo nome e a sfruttarlo politicamente, non sono stati i filo-ucraini, bensì gli organizzatori russi dell’evento a cui Totti ha scelto di partecipare.

Tutto si riduce quindi a scegliere da che parte stare. L’hockeista russo Alexander Ovechkin, che lo scorso 6 aprile è diventato il più prolifico marcatore nella storia dell’NHL superando Wayne Gretzky, ha deciso da tempo di stare dalla parte di Vladimir Putin, di cui è amico ed estimatore, come certifica peraltro la foto nel suo profilo Instagram o la scelta di dar vita a un “Putin team” in vista delle elezioni presidenziali del 2018. Il Cremlino nel tempo lo ha utilizzato come strumento di soft power negli Stati Uniti, ciononostante Ovechkin non è solo un asset per Mosca ma lo è anche per i Washington Capitals, la squadra con cui ha giocato per un ventennio, e per la stessa NHL, la lega nordamericana di hockey su ghiaccio. E infatti mentre la Federazione internazionale di hockey su ghiaccio continua a sanzionare la Russia, che a oggi non parteciperebbe ai Giochi di Milano-Cortina, l’NHL (come da tradizione) ha allestito una pomposa cerimonia per celebrare il record di goal. Di conseguenza il talento ha permesso ad Ovechkin di continuare a stare pubblicamente dalla parte del governo russo senza che ciò compromettesse la sua ricca carriera negli Stati Uniti anche nei momenti di maggiore tensione fra Mosca e Washington.

Allo stesso tempo, però, c’è anche chi, pur avendo la possibilità di continuare a praticare sport di alto livello mantenendo la cittadinanza russa (visto che nel tennis la WTA non ha escluso le atlete russe e bielorusse), ha comunque voluto dare un segnale di discontinuità. Il 28 marzo Daria Kasatkina, che si era espressa sia contro l’invasione russa dell’Ucraina sia contro l’omofobia del governo Putin, ha ottenuto un permesso di residenza permanente in Australia nazione per cui da ora gareggerà anche a livello sportivo.

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C’è poi chi, come il tredicenne karateka ucraino Yevhenii Melnyk il 7 aprile a Guadalajara, rifiutandosi di posare per una foto sul podio accanto a un coetaneo russo, ha voluto esprimere un disagio per una guerra che ha già occupato un quarto della sua giovane vita.

E se, malgrado le difficoltà logistiche e militari e la difficoltà di fronteggiare un’invasione, il governo ucraino è ancora capace di promuovere un certo livello di attività sportiva, ci sono zone del mondo dove tutto ciò resta un sogno e non soltanto perché le infrastrutture sono state completamente distrutte. A Gaza, ad esempio, lo sport oggi è un lusso che nessuno può permettersi. Eppure, sebbene anche prima dell’invasione israeliana fosse estremamente complicato avere accesso ad una formazione sportiva di alto livello, quel territorio martoriato aveva prodotto un potenziale campione. Il sollevatore di pesi Mohammed Hamada, portabandiera ai Giochi di Tokyo del 2021 e campione mondiale junior nel 2022. Di lui si è scritto molto alla vigilia dei Giochi di Parigi, quando era riuscito a scappare dall’inferno di Gaza e aveva cominciato ad allenarsi in Qatar.

Dopodiché, complice un infortunio non aveva partecipato ai Giochi di Parigi e negli ultimi mesi i media sportivi si sono dimenticati di lui, che comunque quotidianamente dai suoi account social denuncia le violenze israeliane postando immagini dei massacri che stanno avvenendo sulla sua terra. Rimane però da chiarire un dubbio. La sua carriera che oggi sembra al palo è stata fermata (o speriamo solo rallentata) solo dagli stenti patiti nei mesi dell’assedio di Gaza o anche dalla sua vicinanza (poco gradita a Fatah che controlla le principali organizzazioni sportive palestinesi) ad Hamas? Dubbi destinati probabilmente a rimaner tali. Rimane invece una certezza. Più che crescono le tensioni politiche più anche per gli sportivi si riducono gli spazi di neutralità e le parabole di Totti, Ovechkin, Kasatkina, Melnyk e Hamada non fanno altro che confermarcelo.


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Nicola Sbetti insegna all’Università di Bologna. Si occupa di storia dello sport e del rapporto fra sport e politica. Membro del Consiglio direttivo della Società Italiana di Storia dello Sport.