Monografia

Lo sport tra migrazioni e sovranismi

Il fenomeno migratorio non è emergenziale ma storico e pone interrogativi anche sulla pratica dello sport: tra ius soli sportivo e ius culturae sportivo. In attesa di una legge sulla cittadinanza tout court

Foto di copertina by TRASMO, feat. Pixabay

Nelson Mandela una volta ha detto: «Lo sport ha il potere di cambiare il mondo. Ha il potere di ispirare. Esso ha il potere di unire le persone in un modo in cui poche altre cose lo fanno. Parla ai giovani in una lingua che comprendono. Lo sport può portare speranza dove una volta c’era solo disperazione». In realtà lo sport in generale, il calcio in particolare, hanno al proprio interno due anime, una inclusiva e una esclusiva, una che ci fa dire che «riesce a promuovere valori come la solidarietà, l’unità, lo spirito di gruppo, la tolleranza, l’uguaglianza, l’integrazione, il rispetto delle regole e l’accettazione delle differenze», l’altra che ci ricorda come «lo sport è stato fortemente intrecciato con ideologie razziste e di esclusione sociale […] Nelle colonie inglesi, in America e in Africa le persone di colore non potevano praticare sport di squadra e spesso erano segregate in campionati separati; questa esclusione iniziò a sfumare in America solo nel secondo dopoguerra (anni Cinquanta) e in Sudafrica al termine dell’Apartheid (1991)».

In Italia il tema dell’immigrazione s’intreccia con lo sport, la sua pratica, il richiamo alla cittadinanza, tra leggi, tensioni, nel senso di tendere a, l’inclusione (esclusione) e la capacità di essere ancora oggi un ascensore sociale. Prima, però, un po’ di dati per capire il fenomeno delle migrazioni, utilizzato per lo più da certa parte politica come una clava per ‘solleticare’ la pancia dell’elettorato.

Lontani dall’Italia, vicino al pallone