Tackle

Controllo, stabilità e variabilità

Nel calcio italiano il fattore sorpresa non sembra più essere una variabile rilevante, l’imprevedibilità è un fastidio da eliminare e l’unica maniera per cercare di vincere una partita è quella di prenderne l’assoluto controllo, se possibile per tutti e novanta i minuti e sulla più ampia porzione di campo disponibile

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di Guglielmo De Feis

Le squadre di calcio italiane sono, per la maggior parte, orientate al controllo: del pallone, del gioco e della partita. La possibilità di verificare in tempo reale sia la condizione fisica sia il livello tecnico della performance dei propri calciatori, consente agli allenatori una forma di controllo su ognuno di essi come mai avvenuto prima d’ora.

Quello che nel gergo calcistico italiano era definito da decenni con il termine di “occhiometro” (ovvero la capacità dell’allenatore di valutare “ad occhio” tutto quello che avveniva sul campo) è stato oggi sostituito da sistemi di rilevamento tecnologici e precisissimi. L’allenatore sa quali, tra i suoi calciatori, stanno bene fisicamente e quali stanno eseguendo in maniera consistente ed efficace i loro compiti. Può altresì verificare in tempo reale da quali parti del campo provengano i pericoli maggiori creati dalla squadra avversaria e in quali cercare di creargliene.

Stranamente, però, gli allenatori vedono in tutta questa produzione di dati solo la parte positiva, ovvero quella che permette loro di prendere decisioni strategiche splendidamente informate. Sembra quasi invece che non sorga nemmeno il sospetto che l’allenatore avversario possa usufruire degli stessi identici dati prodotti dai ventidue giocatori in campo. A nessuno, insomma, sembra dare fastidio questo sistema di “videosorveglianza” su un campo da calcio, che svela in maniera chiarissima e inequivocabile quali possano essere i pericoli da cui doversi guardare.

Il fattore sorpresa non sembra più essere una variabile rilevante, l’imprevedibilità è un fastidio da eliminare e l’unica maniera per cercare di vincere una partita è quella di prenderne l’assoluto controllo, se possibile per tutti e novanta i minuti e sulla più ampia porzione di campo disponibile.

Il senso di sicurezza – che nel caso di alcuni allenatori sconfina in un delirio di onnipotenza – offerto dal controllo teorico di tutte le fasi di gioco, incontra però due potenziali problemi formidabili e occulti: la limitazione dell’individualità dei calciatori e l’intolleranza alla variabilità di una partita, da parte dell’intera squadra.

Il collettivismo esasperato del gioco di squadra “consistente” (la consistency nello sport indica la capacità di mantenere un livello di prestazione stabile e affidabile nel tempo) mette inevitabilmente in difficoltà il giocatore che – per qualità atletiche, o per estro e doti tecniche – abbia bisogno di libertà di pensiero prima ancora che di azione.

Il numero nove debordante per forza fisica, o il numero dieci estremamente fantasioso, hanno entrambi – anche se in maniera tra loro diversa – l’istinto per dover affrontare individualmente i loro avversari diretti e la costrizione a cui vengono sottoposti, in nome della disciplina tattica, è perfino più frustrante sul piano psicologico che limitante su quello tattico.

Nel sistema educativo giapponese* (culturalmente improntato al collettivismo) si insegna ai bambini a collaborare in un processo chiamato hito-zukuri (l’arte di formare le persone). I valori chiave sono rappresentati dal concetto di chi-toku-tai, ovvero abilità accademiche (chi), integrità morale (toku) e salute fisica (tai).

Anche i giovani calciatori italiani sono educati secondo questi principi: le qualità tecniche, il senso della disciplina tattica e la preparazione atletica sono l’equivalente del chi-toku-tai. Purtroppo anche i rischi sono gli stessi: sia nella società giapponese sia nel calcio italiano manca un adeguato bilanciamento tra lo spirito comunitario e la necessità di espressione individuale. In Giappone alcuni genitori scelgono, per i loro figli, scuole internazionali per evitare l’eccessiva conformità a cui sono sottoposti i bambini; in Italia potrebbero decidere di indirizzarli verso altri sport.

Il secondo limite a cui “il controllo” – così come viene inteso nel calcio – va incontro è l’incapacità dell’intera squadra di affrontare la “variabilità” della partita.

Secondo il matematico-filosofo Nassim Nicholas Taleb, “la fragilità di un sistema non si misura dalla sua stabilità passata ma, al contrario, dalla sua tolleranza alla variabilità”.

Nel calcio siamo abituati a considerare solide le squadre che controllano il gioco cercando fin dai primi minuti di imporre all’avversario i propri schemi. Di conseguenza pensiamo che sia fragile la squadra che si difende con il risultato in bilico oppure che vince nei minuti finali di una partita, magari ribaltando il punteggio dopo essere passata in svantaggio.

Applicando al calcio i principi di Taleb – che per quanto si sa, non se ne interessa – la variabilità di una partita, invece, non deve essere né controllata né tantomeno eliminata, perché senza un adattamento a tutto ciò che di imprevedibile può capitare in un evento sportivo competitivo, anche la squadra (come tutti i sistemi) diventa più fragile nel lungo termine, proprio perché vulnerabile a ogni genere di evento estremo e imprevedibile (da Taleb definiti “cigni neri”).

La squadra abituata a giocare perennemente in controllo, in vantaggio e nella metà campo avversaria, il giorno che fosse costretta da un evento imprevedibile a giocare fuori controllo (per un’espulsione, un errore o un rigore ingiusto) sarebbe spaventosamente vulnerabile e non in grado di reagire.

Se per Taleb i sistemi anti-fragili sono quelli che si adattano alla variabilità e migliorano grazie al “disturbo” esterno, allora anche la squadra “controllata” rischierebbe di essere fragile non appena perdesse per la prima volta la sua stabilità. Sarebbe come un organismo che è creduto forte – e quindi in grado di reagire agli agenti patogeni – mentre invece non sarebbe altro che un organismo tenuto lontano da ogni germe, ma non in grado di reagire in caso di contagio.

In definitiva, la questione dell’ossessione per il controllo del palleggio da parte di molti allenatori non attiene solo alla questione estetica della maniera di giocare, ma anche a quella relativa all’esistenza e alla sopravvivenza della squadra.


*Nota bibliografica: “The japanese art of child-rearing”, The Economist, december 21st 2024.


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