Le foto di questo servizio ci sono state gentilmente concesse da Gian Marco Duina, vice presidente di Altropallone Onlus
Gian Marco Duina potrebbe essere definito il globetrotter del calcio sociale, un gitano di esperienze, un pirata di sogni, da rubare ai ricchi per restituirli ai poveri del mondo. Milanese, classe ’94, è da anni impegnato come educatore sportivo in molteplici progetti, iniziando tutto da solo in Kenya con Hopeball, la speranza dentro un pallone. Oggi, invece, è impegnato in Kenya e Zambia con We Football, presto anche Tanzania e Sud Africa, dove lavora con i bambini e le bambine di strada, lì dove c’è un sistema simile a quello statunitense per le borse di studio sportive e allora il calcio diventa uno strumento di emancipazione e ascensore sociale fondamentale, sport e scolarizzazione che vanno avanti di pari passo; una ragazzina cresciuta nelle loro academy, Velma Awuor, è arrivata a giocarsi il Mondiale Under 17, giocato nella Repubblica Dominicana, con la maglia della nazionale kenyota. In Italia, invece, è vice presidente di Altropallone Onlus, realtà con la quale, insieme con la Cooperativa Intrecci e la direzione del carcere di Busto Arsizio, ha messo in piedi un bellissimo progetto di calcio carcerario che si chiama Tiro libero. Noi ci siamo fatti raccontare di cosa si tratta.
Cos’è stato e cos’è il calcio per Gian Marco Duina?
«Sicuramente è stato passione, come per quasi tutti. È partito tutto da lì e poi mi sono chiesto se potesse diventare uno strumento per fare qualunque cosa. Analisi della società, educazione, formazione, crescita, utilizzandolo nelle carceri, con i migranti e gli studenti, aiutandoli magari a diventare educatori sportivi come me. Il calcio è sicuramente un grande strumento di aggregazione, ma se poi si lascia lì non crea altro, invece ha la capacità di parlare a tutti globalmente, ed ecco l’educazione dei ragazzi e delle ragazze di strada in Africa. Nella Striscia di Gaza ho avuto, in questo senso, una delle esperienze più forti, ho giocato a calcio con la nazionale amputati gazawi, io insieme a ragazzi con disabilità e non c’è stato bisogno di dirsi altro perché bastava il pallone; pensa che molti di loro hanno iniziato a giocare dopo l’amputazione, per utilizzare il football come strumento di resistenza».