Monografia

Cartellino Giallo Dozza

All'interno del carcere bolognese, da dieci anni è attivo un progetto basato sul rugby. Non è stato il primo, ma è fra quelli che sinora hanno funzionato meglio

I cattivisti, i fenomeni che parlano per slogan, quelli che butterebbero la chiave, si appuntano la spilla del rigore (ovviamente selettivo, ma questo è un altro discorso): un carcere non è un albergo, non è una vacanza. In realtà è abbastanza idiota anche solo pensare che lo sia, soprattutto in certe case circondariali, perché è vero che non tutte le carceri sono uguali: ve ne sono alcune nelle quali, per una particolare attenzione da parte di chi dirige gli istituti o per alcune progettualità che, dall’esterno, riescono a entrarvi, la condizione di alienazione dei detenuti viene diminuita, con la conseguenza di un miglioramento generale della vita – non solo di chi è rinchiuso, ma anche di chi lavora, e questo è un altro punto determinante – di quelli che, a tutti gli effetti, sono non luoghi. C’entra lo sport. In questo caso, che è un caso di specie, c’entra il rugby.

Piccolo spazio autoreferenziale: parlo, in questo caso, di una situazione che ho conosciuto di persona quando, una decina di anni fa – era la seconda metà del 2015 –, una testata per la quale collaboravo allora mi chiese di seguire una delle prime partite del Giallo Dozza, squadra di rugby creata a Bologna, nella casa circondariale Rocco D’Amato, attraverso un progetto intitolato “Tornare in campo” e portato avanti da Bologna Rugby Club grazie al supporto economico di alcune aziende molto note. Il Giallo Dozza giocava allora, e gioca tuttora, nella Serie C2 federale della FIR: non era il primo progetto di rugby in carcere (a Torino, all’interno della casa circondariale Lorusso-Cotugno, c’era già l’esperienza della Drola, nel progetto “Ovale oltre le sbarre”), ma è stato senza dubbio uno dei più riusciti, con 40 detenuti, dalle storie individuali spesso molto eterogen…

Lorenzo Longhi
Emiliano, ha esordito con il primo quotidiano italiano esclusivamente web nel 2001 e, da freelance, ha vestito (e smesso) casacche anche prestigiose. Di milioni di righe che ha scritto a tamburo battente gran parte è irrilevante. Il discorso cambia quando ha potuto concedersi spazi di analisi.