I cattivisti, i fenomeni che parlano per slogan, quelli che butterebbero la chiave, si appuntano la spilla del rigore (ovviamente selettivo, ma questo è un altro discorso): un carcere non è un albergo, non è una vacanza. In realtà è abbastanza idiota anche solo pensare che lo sia, soprattutto in certe case circondariali, perché è vero che non tutte le carceri sono uguali: ve ne sono alcune nelle quali, per una particolare attenzione da parte di chi dirige gli istituti o per alcune progettualità che, dall’esterno, riescono a entrarvi, la condizione di alienazione dei detenuti viene diminuita, con la conseguenza di un miglioramento generale della vita – non solo di chi è rinchiuso, ma anche di chi lavora, e questo è un altro punto determinante – di quelli che, a tutti gli effetti, sono non luoghi. C’entra lo sport. In questo caso, che è un caso di specie, c’entra il rugby.
Piccolo spazio autoreferenziale: parlo, in questo caso, di una situazione che ho conosciuto di persona quando, una decina di anni fa – era la seconda metà del 2015 –, una testata per la quale collaboravo allora mi chiese di seguire una delle prime partite del Giallo Dozza, squadra di rugby creata a Bologna, nella casa circondariale Rocco D’Amato, attraverso un progetto intitolato “Tornare in campo” e portato avanti da Bologna Rugby Club grazie al supporto economico di alcune aziende molto note. Il Giallo Dozza giocava allora, e gioca tuttora, nella Serie C2 federale della FIR: non era il primo progetto di rugby in carcere (a Torino, all’interno della casa circondariale Lorusso-Cotugno, c’era già l’esperienza della Drola, nel progetto “Ovale oltre le sbarre”), ma è stato senza dubbio uno dei più riusciti, con 40 detenuti, dalle storie individuali spesso molto eterogen…