di Nicola Calzaretta
Il brano è tratto dal mio “Le cose perdute del calcio”, con alcuni riadattamenti
Giuseppe Spalazzi, portiere, classe 1943. Piacentino di Agazzano, altezza un metro e ottanta, peso forma settantotto chili, standard perfetti per un portiere negli anni ’60. Precoce esordio in Serie C con il Piacenza, a venti anni è nel vivaio del Bologna. Da quella posizione privilegiata vive l’epopea di Bulgarelli e compagni che arrivano a conquistare lo scudetto superando l’Inter nello spareggio del 7 giugno 1964, primo e unico caso di campionato assegnato con la “bella” decisiva, 2-0 per i rossoblù con Bruno Capra ala tattica. La stagione seguente è promosso in Prima Squadra, terzo della gerarchia dopo il titolare William Negri e la sua riserva Rino Rado. Debutta in A con la maglia scudettata nel maggio 1965 e becca cinque gol in novanta minuti dal Torino, non proprio un buongiorno. Dopo Bologna (e lo sfortunato scontro con Bruno Mora che al milanista costò una gamba e a lui l’immagine eterna di quell’infortunio) nel 1968 si trasferisce al Bari, quindi al Genoa per un’altalena tra A e B che si chiude poi a Palermo nel 1974-75 a zero presenze in campionato per un ginocchio ferito che non guarisce.
Spalazzi, si diceva. È lui – a sua insaputa – il pioniere delle mezze maniche. Anni ’70, la divisa che indossa – verde al Bari, blu scura al Genoa – lascia scoperte ampie superfici delle braccia, e non per mettere in mostra l’ultimo tatuaggio, tendenza ancora sconosciuta tra i calciatori dell’epoca. La maglia è quella tradizionale che copre l’arto superiore fino al polso. Paziente e certosina è la sua opera di arrotolamento delle maniche, sicuramente agevolata dal fido magazziniere e sicura ispirazione per le future gesta di Sergio Brio, per tutti gli anni ’80 cintura nera in materia con la divisa della Juventus. E chissenefrega se fuori piove o fa freddo. Con il Palermo in B nell’estate 1974, c’è il salto di qualità, perché tutto lascia intendere che la manica corta sia nativa. Purtroppo Spalazzi è presto ko per un serio infortunio ed esce di scena. Lui e la sua maglia. Per una moda che non attecchisce. Giusto qualche sporadico esempio di altri coevi avanguardisti cadetti, tra cui Claudio Bandoni e Luigi Boni, e un po’ più tardi Roberto Corti, portiere in A con Cagliari, Udinese e Ascoli, ma nei fatti nessun discepolo divulgò il verbo.
Resiste, quindi, ovunque e in qualunque categoria, la tradizione aurea della manica lunga. Perché così è ontologicamente la divisa del portiere. Nasce in quella foggia, a prescindere dal meteo e dalla temperatura. Inverno, estate e anche nelle mezze stagioni – quando ancora esistevano. Non è un vezzo, né una necessità regolamentare. La manica lunga completa la corazza, è uno scudo in più, dà certezze e sicurezze, avvolge e coccola, ripara dal freddo, dalla gibbosità del terreno, dalle insidie del campo. E poi protegge di più e meglio, specie i gomiti, sollecitati in svariate figure tipiche del ruolo: tuffi laterali con conseguenti atterraggi, uscite basse con annessi scivolamenti e strofinamenti prima dell’impatto con il pallone. E anche l’avambraccio con quel pezzo di stoffa tubolare che lo copre, ne trae giovamento, soprattutto per evitare l’effetto kebab, specialmente quando il terreno di gioco è più simile ad una grattugia che ad una pelouse. E in epoche remote non era raro imbattersi in campi che non avevano mai visto crescere un filo d’erba, dove la parola “Prato” individuava una parte delle tribune e di verde c’era solo la scritta “Vendita biglietti” all’esterno dell’impianto. In molti stadi della terza serie siciliana si giocava regolarmente sulla terra battuta: Alcamo, Agrigento (con la mitica Akragas), Marsala, Trapani. Per tacer dell’Empire Stadium – si chiamava così davvero! – di Gzira, isola di Malta, teatro anche di partite internazionali. Un’esperienza onirica, un percorso sensoriale provato prima dalla Juventus (15 settembre 1971, Coppa Uefa, 6-0 al Marsa) e poi dall’Inter (13 settembre 1978, Coppa delle Coppe, 3-1 sul Floriana). Erbetta zero. Gradi all’ombra trentacinque. Atmosfera da oratorio. Foto di gruppo con mascotte. Pubblico entusiasta. Panchine non pervenute.
Porte stile pallamano con pali squadrati in metallo dipinti di bianco e nero Campioni di grido da ammirare: Haller, Capello, Bettega; Altobelli, Beccalossi, Oriali. Gol a grappoli. Scie polverose ad inseguire l’ala destra in progressione e nuvolette di sabbia al rimbalzo del pallone. E poi l’abbigliamento dei portieri: Pietro Carmignani, Juventus: tradizionale completo nero, comprensivo di tuta lunga, no guanti, sorriso stranito sul volto. Ivano Bordon, Inter: mani nude, calzamaglia scura, divisa verde a coprire anche i polsi sovrastata da t-shirt rossa con numero uno bianco, per meglio distinguersi dal biancoverde del Floriana. Giocateci voi con i gomiti all’aria in quei campi. Ma anche nei tanti altri sparsi per la nostra penisola dove l’erba c’è, ma giusto per l’effetto cromatico a distanza. Più ti avvicini e più ti accorgi che il pratino all’inglese in realtà di inglese ha poco e di prato ancora meno. Un’illusione ottica che nemmeno Silvan. Il resto è gramigna, terra, polvere. E poi magari piove. Ma qui, arriva la segatura, sparsa da mano sapiente davanti la porta. Un rimedio efficace per l’assorbimento dell’acqua piovana e per rendere meno complicata la partita del portiere. Un ulteriore tocco di colore. Un rimedio usato sempre più spesso, va detto, anche nelle giornate di sole e senza nuvole. Un tappeto di scarti variegati provenienti da legnami diversi e di diverse dimensioni, residui di lavorazioni di seconda e terza scelta generosamente forniti dalla vicina falegnameria. E comunque, tuffatevi voi a mezze maniche – e senza braccioli – in quell’impasto di mota, trucioli, erbacce. Il tutto su un letto di calce viva, quella della linea di porta e delle altre righe del campo.
Maniche lunghe tutta la vita, allora. E il portiere, sul finire degli anni Settanta, diventa sempre di più preda succulenta dei produttori di materiale tecnico. Non solo guanti, ma anche maglie. Che all’altezza dei gomiti, guarda caso, si rinforzano con imbottiture di gomma piuma, nascoste da cuciture quadrettate e che danno un tocco ancora più aggressivo alla divisa dei numeri uno. Oddio, c’è qualcuno che, specie quando le temperature salgono, memore delle imprese del pioniere Spalazzi, si arrotola le maniche un pelo sotto il gomito. È la modalità “lavandaia” che vede, tra gli altri, Villiam Vecchi “L’eroe di Salonicco” (Milan-Leeds 1-0, finale di Coppa delle Coppe 16 maggio 1973) tra i più assidui. Poi c’è Giovanni Galli, astro nascente della Fiorentina e presenza costante del club Italia fin dall’adolescenza, che un bel giorno – inizio anni ’80 – scrive direttamente all’Adidas, sponsor tecnico della sua squadra di club: “Le maglie da portiere che fate sono bellissime e alla moda. Ma la banda che contiene le vostre tipiche tre strisce cucita sulla manica è piuttosto rigida. Mi dà fastidio, mi lega un po’ nei movimenti. Potete limitarla solo alle spalle, per favore?”. La casa tedesca accogli il grido d’allarme e provvede alla modifica ad personam, limitando alle sole spalle la tripla rigatura, ma senza alcuna “scorciatoia”. Anzi, la divisa dei numeri uno (e anche dei dodicesimi) rimane rigorosamente a tutto braccio.
Poi arrivano gli anni ’90. L’effetto “lavandaia” comincia a prendere sempre più piede. Il leader silenzioso del movimento “gomiti liberi” in Italia è Gianluca Pagliuca. All’Inter indossa con sempre maggiore frequenza maglie con maniche ridotte a “trequarti”. Lo stesso fa lo scarsicrinito Fabien Barthez, gardien del Marsiglia e del Monaco, e campione del Mondo e d’Europa con la Francia tra il 1998 e il 2000. Dall’altra parte dell’Oceano si segnala il variopinto messicano Jorge Campos, ma lui in realtà è un surfista. Il resto dei numeri uno del globo terracqueo rimane fedele alla tradizione e alla logica.
Chi riscrive la storia è Gigi Buffon. Dalla fine degli anni ’90, la sua è una progressione inesorabile. Parte con il tirare su la manica, lo fa anche nel giorno del suo – imprevisto – debutto in Nazionale, e fuori quel giorno faceva freddo davvero, con vento e neve a Mosca. Poi, in accordo con il magazziniere del Parma, si procura delle forbici da sarta e provvede direttamente alla riduzione della stoffa delle sue maglie griffate Parmalat, novello Edward mani di forbice. Un’operazione che esegue decine di volte prima di stufarsi e di perseguire davvero l’obbiettivo, non come Jobim-Spalazzi, per dirla con i sanremesi Elii della “Canzone mononota” che non ebbe le palle di perseguire un obbiettivo. Rapido scambio di sms (ancora su usavano, uozzap non esisteva) con lo sponsor tecnico ed ecco che Supergigi perfeziona la sua armatura: maglia con la mezza manica, rifinita con tanto di bordino. Da indossare sempre. In tutti i luoghi e in tutti i laghi. Alla Juve e in Nazionale, ma anche al Psg e di nuovo al Parma, ormai uomo maturo. Talvolta la calzamaglia sotto, quello sì. I guanti in ogni circostanza, per un’immagine che lo avvicina moltissimo ai personaggi dei fumetti di Topolino di Walt Disney.
È l’inizio della fine. Il Buffon-style si diffonde all’istante tra le decine e decine di colleghi sparsi sull’italico campo pallonaro, isole comprese. Gigi è il primo vero influencer della storia. Tutti all’unisono ipnotizzati dalla novità: dalla Serie A, fino alle categorie inferiori, eccoli a difesa delle proprie porte in variopinte t-shirt da surfisti (Campos docet, questo il dramma). Certo i campi da gioco sono migliorati, l’erba, non solo quelle del vicino, è sempre più verde, anche perché spesso è sintetica. Portieri che fino al giorno prima manco ci pensavano, ora sono tutti lì con i gomiti al vento e avambracci da mostrare, insieme all’ultimo tatuaggio. Un cambio di rotta repentino, radicale, definitivo; così, senza un motivo, né una ragione perché una moda debba attecchire. A nulla servono gli appelli dei politici, il grido d’allarme dei sindacalisti, le inchieste di Report e le serate nei talk televisivi dedicare al tema. Il paese intero è in fibrillazione. La protesta dei “GommaPiumai” arriva fino a Sanremo e Amadeus, novello Pippo Baudo, ferma a mani nude il leader dei GP che minaccia di calarsi giù dalla balaustra dell’Ariston appeso ad una corda di stoffa formata da tutte le maniche tagliate e annodate tra di loro. Non manca Bruno Vespa che si fionda sulla preda e ci fa tre puntate di Porta a Porta dal titolo “Io le mezze maniche me le mangio al sugo”, sfruttando una perfida battuta di Stefano Tacconi, ospite in studio.
Niente da fare. Le maniche lunghe non esistono più. La sentenza è definitiva. Ma non ancora passata in giudicato. Qualcuno ha resistito: il primo Gigio Donnarumma, per esempio. Ma anche l’ex interista Samir Handanovic ha continuato a parare in lungo. All’estero c’è stato “simpatia” Manuel Neuer, paladino del “Ellbogenschutz” – in italiano suona più o meno, “Protezione del gomito”. Per dovere di cronaca si segnala anche lo svizzero Yann Sommer, portiere dell’Inter, che para in lungo in netta controtendenza rispetto ai colleghi della Serie A. Per il resto, infatti, è un trionfo di mezze maniche e di sottomaglie dello stesso colore. E allora alla fine di tutta questa lunga storia, come José Mourinho, ti chiedi: PORQUÉ?
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Nicola Calzaretta, classe 1969, lucano di nascita, toscano di adozione. Collabora da venti anni con il Guerin Sportivo ed ha scritto decine di libri, uno degli ultimi dedicato a Le cose perdute del calcio. Il primo del 2002, grazie al nostro direttore, racconta la storia di Luciano Bodini e di altri portieri di riserva: Secondo me, una vita in dodicesimo. Perché sebbene amasse Dino Zoff, ha avuto sempre un debole per i suoi secondi, lui che portierino nelle giovanili del Cecina lo è stato per alcune stagioni e che come regalo per gli esami di seconda elementare, chiese e ottenne una divisa da portiere: nera e con le maniche lunghe.