Le immagini sono state pubblicate per gentile concessione della Panini a Nicola Calzaretta
di Nicola Calzaretta
Nel viaggio dello scorso mese ci eravamo fermati alla stagione 1974-75, l’ultima con i portieri che ancora potevano vestirsi di nero. Ultima perché con il campionato 1975-76, cambiano le regole in tema di abbigliamento. “Il portiere deve indossare una maglia che lo distingua non soltanto dagli altri giocatori, ma anche dall’arbitro. Quindi, poiché la divisa arbitrale è nera, i portieri non possono più indossare maglioni neri”. Lo ha stabilito l’International Board a giugno. Lo ha recepito la Federcalcio con una propria deliberazione e adesso, nel consueto raduno degli arbitri di inizio stagione, tenutosi a Viareggio in un mercoledì tardo settembrino, se ne parla anche tra chi sarà chiamato a far rispettare la nuova disposizione. Il racconto che segue di quella svolta epocale è tratto dal libro Le cose perdute del calcio. Molte verità e qualche divagazione romantica sul tema.
In Italia il nero per i portieri, che pure snellisce, viene espressamene vietato il 24 settembre 1975. Viareggio, riunione degli arbitri in vista dell’avvio del campionato. Nessuna motivazione politica, per carità. Il perché riguarda la necessità di distinguersi dagli arbitri, ancora fedeli alle loro “giacchette nere”. Il divieto è assoluto: una svolta drastica, anche se ormai la notizia era nell’aria già da un po’. Eravamo rimasti solo noi tra i “grandi” Paesi europei a far vestire ancora in questo modo i portieri nei tornei domestici. Nelle coppe del mercoledì e nei campionati esteri la giostra dei colori era partita da tempo. Non che dalle nostre parti fosse un obbligo il nero, di numeri uno variopinti tra l’altro ne avevamo – Albertosi docet – ma quella era la tendenza. Che, inevitabilmente, si espandeva anche a pantaloncini e calzettoni. Le uniche concessioni cromatiche erano riservate a colletto e polsini, dove risaltavano i colori sociali.
Il completo nero. Un outfit che è stato per anni il segnale distintivo di chi difendeva la porta e che, diciamocela tutta, sprigionava un fascino irresistibile. Una divisa che, in certi casi, ha suggerito la creazione di soprannomi ad hoc. Come Ragno Nero che ha identificato il mitico Lev Jascin, il mitico numero uno dell’Unione Sovietica degli anni ’60 e il nostro Fabio Cudicini, portiere del Milancampione d’Europa nel 1969 contro l’Ajax di un giovane Cruyff.
Ma torniamo a quel settembre 1975 che dette il primo colpo alla tradizione in tema di maglie da portieri. Vietato il nero dunque, la sovrapposizione cromatica con la mise dell’arbitro è assoluta e quindi genera confusione. Così ha deciso fin da giugno l’International Board che da sempre scrive le regole del pallone a cui ha fatto seguito il placet della Federcalcio italiana. Ma siamo a settembre, la stagione ufficiale è già partita. Il tempo stringe e tutti si affannano alla ricerca dell’arcobaleno per i propri portieri. Anche perché la regola è chiara, così come le sanzioni, tra cui l’acquisto di dieci flaconi da cinque litri di Candeggina Ace – quella che non strappa, e di tante scatole di pennarelli Carioca Jumbo da ventiquattro per quanti sono i componenti della rosa, terzo portiere della Primavera incluso. L’intento afflittivo è chiaro: scolorire la maglia; quello rieducativo: dipingerla di altre tinte. Fu un momento di grande sconquasso e disorientamento. Certo, il fulmine non fu proprio a ciel sereno, ma pur sempre di fulmine si trattò visto lo scarso preavviso, con la prima giornata in programma il 5 ottobre 1975. Al bagliore saettante del lampo che squarciò il cielo della storia, seguì il fragoroso tuono delle imprecazioni irripetibili dei magazzinieri chiamati al miracolo, ma allo stesso tempo maledicenti tutta la schiera dei santi, angeli, arcangeli e cherubini al completo. Quindi, ecco lo scrosciante temporale estivo formato dai secchi di lacrime, con annesso stridore di denti, dei presidenti disperati per i denari da scucire e per le fidejussioni rilasciate da improbabili compagnie assicurative a garanzia delle nuove spese. Giorni febbrili. Furono rovistati tutti gli armadi dei magazzini nascosti nei meandri dello stadio, nel ricordo di vecchie maglie colorate senza numero ormai dismesse, ma irrimediabilmente tarlate e infeltrite. Si esplorarono stanzine segrete, si cercò nei vecchi bauli riposti negli angoli più bui degli spogliatoi. Si aprirono cassetti di comò privati alla ricerca di maglioni con effetti stroboscopici mai messi per la vergogna. Furono contattati i Cugini di Campagna, i Pooh, i Camaleonti e perfino Le Orme nel disperato tentativo di recuperare abiti di scena ancora buoni e atti alla bisogna. Seguirono assalti ai grandi magazzini. Raid nei mercatini delle pulci e in quelli rionali. Telefonate a sarti di fiducia, con le maglierie che furono costrette a doppi e tripli turni di produzione. Nulla fu lasciato al caso. Si attivarono anche i singoli portieri. Alcuni tutto sommato incuriositi dalla novità, altri con il muso lungo.
L’occhio cadde subito su Dino Zoff, che già in passato nelle coppe aveva talvolta abbandonato il suo proverbiale nero per un azzurro europeo, ma si scoprì che quella era la seconda maglia della Juventusdei primi anni ’70 (modello a girocollo, per intendersi) ormai fuori catalogo e quindi funzionale riciclo a costo zero in perfetto stile bonipertiano. Stavolta, però, si faceva sul serio, occorreva una decisione netta e definitiva. E costosa. Messa da parte l’amata divisa nera, il numero uno della Nazionale si vestì di verde pisello per la prima gara di Coppa Uefa in Bulgaria il 15 settembre 1975. Prestazione pallida come la sua maglia, due gol al passivo e mille pensieri sul colore da scegliere per il futuro. Tempi stretti, visto che l’impegno successivo in Coppa Italia era in calendario sei giorni dopo. Tornato a Torino Zoff, tramite l’amico e collega Luciano Castellini, già suo fornitore di contrabbando di guanti, si procurò l’indirizzo di una curiosa bottega di Amsterdam, un sigarenwinkel annex hengelsportzaak, ovvero una tabaccheria con annesso negozio di articoli da pesca, gestita da un altrettanto curioso personaggio che pare si dilettasse anche come portiere. Prese una delle sue foto-cartoline, quelle destinate ai tifosi, con tanto di autografo incorporato. Sul retro scrisse poche righe, più un telegramma che una lettera: “Piacerebbe provare tua maglia gialla stop. Spedire a Juventus, Galleria San Federico 54 – Torino stop. Porto assegnato stop. Grazie. Cordialità. DZ”. La risposta fu celere, il pacco fu recapitato a destinazione due giorni dopo, neanche Amazon. Ci furono questioni per il pagamento delle spese, il postino di fede granata non sentì ragioni e poté raccontare di aver battuto Boniperti sul terreno della vil moneta. Dare soldi, vedere cammello. E fu così che Zoff si presentò a San Benedetto del Tronto con la sgargiante maglia giallo-canarino arrivata direttamente da Amsterdam e mandatagli personalmente da Jan Jongbloed! Sì, proprio lui, il portiere dell’Olanda di Cruyff seconda al mondiale tedesco del ‘74, il padrone del negozio, non a caso chiamato “tabaccaio volante”. Quello che sulle spalle portava il visionario “8”, per tacer delle ginocchiere, delle mani senza guanti e del senso della posizione molto “orange”. Due universi paralleli, ma stessa uniforme: questo può fare una regola che cambia. Non parve vero, Dino Zoff con una fotonica divisa griffata Adidas: paricollo, le tre strisce nere sulle maniche, polsini elastici. Dietro l’ortodosso numero 1 dal futuristico font. Sul petto la stella e lo scudetto vinto a maggio. Nei suoi occhi ancora il tremendo ricordo di quell’ultima giornata, 18 maggio 1975, 5-0 al Lanerossi Vicenza, con la classica invasione “pacifica” dei tifosi festanti per il successo. A lui, quelli più devoti, alla ricerca di reliquie, strapparono la sua bella maglietta nera, ridotta a brandelli.
Zoff e Jongbloed sullo stesso piano quindi, la magia della divisa che unisce. Eccole qui le convergenze parallele tanto care ad Aldo Moro. Due mondi lontanissimi, che si toccano. Giusto per quell’occasione, va detto. Perché la nuova maglia non porta benissimo a Zoff che ne prende due pure dalla Sambenedettese, formazione di Serie B. Pomeriggio da dimenticare per il numero uno bianconero, pure sbeffeggiato dal centravanti avversario Francesco Chimenti, in un truce faccia a faccia in perfetto stile western, con tanto di visi stravolti dalla fatica e dalla tensione. In rete esiste la prova fotografica di quell’incontro ravvicinato. Zoff di spalle. Di fronte il minaccioso ghigno di Chimenti, leader della Samb, nonché fratello del mitico Vito “em bycicleta” e padre di Antonio detto “Zucchina”, portiere anche in bianconero come vice Buffon non molte stagioni fa. Nessuno sa cosa si siano detti. Un raccattapalle dall’udito raffinato giurò di aver sentito Chimenti apostrofare Zoff con la parola “tabaccaio”, ma la voce non è mai stata confermata.
La partita termina 2-2. Juve fuori dalla Coppa Italia, il canarino viene lasciato libero di volare e la maglia gialla riprende la via dell’Olanda, rispedita presso la tabaccheria di Amsterdam, quartiere di Bellamybuurt, all’angolo tra Douwes Dekkerstraat e Jan Hanzenstraat.
E intanto arriva il 5 ottobre 1975. Prima di campionato e prima volta senza il nero per i portieri. Diversi scelsero il verde, Zoff compreso. Altri il grigio. Tutto uguale per il milanista Enrico Albertosi e il suo maglione giallo, con i laccetti al collo e lo stemma sociale sul petto. Lui di nero non si è mai vestito. Con e senza baffo.
Già, le amate figurine. Perché il divieto del nero reso pubblico in così grave ritardo, colse di sorpresa anche i fratelli Panini. Ormai le foto dei calciatori erano state fatte, tornare indietro era quasi impossibile. Nell’album Calciatori 1975-76, oltre al milanista Ricky si salvarono in pochi. Tra questi il debuttante Franco Mancini, nuovo numero uno del Bologna, in rosso fuoco, divisa classica in alternativa al blu e al grigio.
Lo stesso dicasi per il portiere della Fiorentina Franco Superchi, in verde smeraldo della recente tradizione viola, con la coccarda della Coppa Italia a fare da supporto allo storico giglio cucito sul petto.
Storia diversa, invece, per molti dei numeri uno della Serie A, costretti al lutto. Ma per alcuni di loro, fu trovata (nel vero senso della parola) una soluzione che potesse ben equilibrare passato e presente, tra figurina singola e quella della squadra schierata.
Antonio Rigamonti, il portiere rigorista. Ne realizzerà tre in quella stagione del ritorno in A del Como (in rosa, da ottobre, anche un certo Paolo Rossi, in prestito dalla Juve). Primo piano in nero con ampio colletto azzurro e capello ben pettinato che scopre una fronte alta e spaziosa.
Nella figurina della squadra schierata prima della partita, quarto da sinistra nella fila in alto, eccolo nel legale maglione grigio, polsini e ampio girocollo azzurri, crine arruffato in perfetto mood pre gara. Sul petto, in un cerchietto, il logo del Como
Storia analoga pure per il titolare della Roma Paolo Conti ed i suoi baffi sempre più spioventi. Maglione nero pece addolcito da uno stupendo girocollo giallorosso. I suoi occhi guardano lontano.
È in anonimo grigino, senza alcun richiamo ai colori sociali, invece nell’undici schierato in posa per i fotografi il Conti portiere. Alla sua destra sta il massaggiatore Roberto Minaccioni (padre dell’attrice Paola, e controfigura del mitico Capannelle). Insieme a Loris Boni, Giancarlo De Sisti e Giorgio Morini, sono tutti accosciati, altra cosa perduta del calcio moderno.
Multa evitata anche per il nostro Dino Zoff, in old black arricchito da stella, scudetto e riga bianca all’altezza del collo nel suo ritratto solitario, con posa a tre-quarti rispetto all’obbiettivo.
Compare nel politicamente corretto, nonché molto british verde all’inizio della partita domenicale di campionato. Stessi orpelli e mostrine tra decori e fregi tricolori, primo in piedi da sinistra. Le braccia conserte, le mani nude.
E Massimo Piloni? Lui dopo tre anni di panchina a zero presenze come vice Zoff, se n’è andato al Pescara in Serie B. Classica uniforme anni ’70 per lui, giusto il girocollo biancazzurro, i colori sociali, a spezzare il nero del primo piano.
Ma quando c’è da giocare, eccolo in lindo grigio, quarto da sinistra, in piedi, busto eretto e sguardo fiero. Anche perché, stavolta, sulla schiena ha il numero 1.
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Nicola Calzaretta, classe 1969, lucano di nascita, toscano di adozione. Collabora da venti anni con il Guerin Sportivo ed ha scritto decine di libri, uno degli ultimi dedicato a Le cose perdute del calcio. Il primo del 2002, grazie al nostro direttore, racconta la storia di Luciano Bodini e di altri portieri di riserva: Secondo me, una vita in dodicesimo. Perché sebbene amasse Dino Zoff, ha avuto sempre un debole per i suoi secondi, lui che portierino nelle giovanili del Cecina lo è stato per alcune stagioni e che come regalo per gli esami di seconda elementare, chiese e ottenne una divisa da portiere: nera e con le maniche lunghe.