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Le due culture del calcio

Gli allenatori oggi privilegiano l’aspetto della misurazione scientifica rispetto a quello della conoscenza antropologica del football

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di Guglielmo De Feis

“Un uomo che vuole la verità diventa uno scienziato; un uomo che vuole dare libero sfogo alla sua soggettività può diventare uno scrittore; ma cosa dovrebbe fare un uomo che vuole qualcosa nel mezzo?”. Così scriveva Robert Musil nel suo romanzo L’uomo senza qualità affrontando il tema del contrasto tra razionalità tecnico-scientifica e sfera emotivo-spirituale. Diversi anni dopo di lui (più o meno trenta), Charles Percy Snow in maniera più diretta e polemica rispetto a Musil ­– che aveva avuto invece uno stile narrativo e conciliante – definisce con precisione il tema delle “due culture”, parlando proprio della divisione tra scienze e discipline umanistiche.

Sia Snow (scienziato e romanziere) sia Musil (ingegnere e scrittore) avevano una doppia formazione culturale ed entrambi sentivano profondamente l’esigenza di favorire un’integrazione tra discipline diverse tra loro (ma per entrambi non inconciliabili), con la ricerca di una sintesi tra razionalità e sentimento.

Pur essendo passati oltre sessant’anni dalla lezione di Snow e nonostante tutti i cambiamenti intervenuti dai suoi tempi, restano attuali tutte le sue domande sull’interazione culturale e scientifica che mira ad integrare la conoscenza tra le due diverse discipline.

La critica di Snow nei confronti dell’educazione del suo tempo – che influenzava, a suo dire, la separazione delle discipline con programmi di studio incentrati alternativamente o sulla scienza o sulle materie umanistiche – sarebbe perfettamente attuale e valida anche nel calcio del giorno d’oggi. 

Nel calcio infatti, dopo la rivoluzione tecnologica di VAR, Big Data e Intelligenza Artificiale, non solo esistono due culture contrapposte, ma esistono anche due differenti prospettive che sembrano limitare in maniera irrisolvibile la comprensione interdisciplinare.

Gli allenatori oggi privilegiano l’aspetto della misurazione scientifica rispetto a quello della conoscenza antropologica del calcio. 

Le prestazioni delle squadre e quelle di ogni singolo calciatore non vengono più valutate a “percezione” semplice ed “intuizione” pura, ma sulla base di sofisticati dati e parametri. È il match analyst, dopo la partita, con una sorta di razionalizzazione ex post, a spiegare in quale modo la squadra ha perso e in base a quali motivi la performance di un calciatore è da ritenersi insufficiente. Se questo nuovo criterio scientifico, però, ha certamente contribuito sia all’accuratezza sia all’oggettività dell’analisi delle partite, ha, dall’altro lato, escluso tutta una serie di considerazioni antropologiche che precedentemente avevano molta importanza.

Il calciatore semplicemente “presente” in campo (aspetto, questo, di un valore inestimabile) con la sua personalità incombente sulla partita, capace di condizionare positivamente le performance dei compagni di squadra, negativamente quelle degli avversari, nonché – in qualche misura – perfino di condizionare il contesto generale della partita, resta assurdamente fuori dall’equazione della match analysis che è incapace di trovare una formula matematica per rendere computazionale la valutazione di tanti comportamenti utili ma, evidentemente, invisibili per la statistica calcistica. 

Per utilizzare la questione delle due culture come affrontata da Snow, si può dire che nel calcio la scienza “misuri” virtualmente le giocate dei calciatori in campo, ma solo la cultura (in questo caso quella calcistica) possa “pesare” realmente la loro presenza.

Il critico e saggista italiano Franco Moretti, un fautore dell’approccio interdisciplinare, ha introdotto negli studi letterari, tra molti altri, il concetto di “distant reading” (lettura a distanza).

Allontanarsi dal singolo testo (close reading) permette di osservare non più solo un romanzo, ma uno stile particolare o un intero genere letterario. Perfino in letteratura, quindi, è possibile una quantificazione di ogni fenomeno letterario a patto però che si utilizzi questa prospettiva distante e dall’alto, quasi a permettere una visione completa dell’intero campo d’azione.

Così come nel calcio si valutano sulla base di specifici parametri i calciatori di interi campionati, il metodo proposto da Moretti – con l’uso di strumenti quantitativi come grafici a barre, mappe e linee temporali – ha permesso l’analisi dell’intera produzione letteraria di paesi come Giappone, Italia, Spagna e Nigeria. 

Sia nel calcio sia in letteratura, sono possibili dunque l’analisi qualitativa e focalizzata su singole parti (rispettivamente, una partita o un testo) e quella quantitativa e su larga scala (rispettivamente, un intero campionato o un intero genere letterario).

Così come credo non vi possano essere dubbi sul fatto che non solo un capolavoro della letteratura mondiale, ma anche un semplice libro di saggistica contemporanea meriti una “close reading” per poter essere valutato e apprezzato, anche una partita di calcio andrebbe vista senza le lenti deformanti delle statistiche. 

Queste ultime, proprio come i grafici e le mappe di Franco Moretti, possono essere utili per una valutazione generale di un intero campionato o di una tendenza nella maniera di giocare, ma molto meno per comprendere la qualità estetico-emotiva di una partita singola. 

A questo punto potremmo dare la risposta alla domanda di Robert Musil applicata al calcio attuale: chi volesse rimanere nel mezzo tra lo scienziato e lo scrittore (parafrasando: tra il match analyst e il tifoso) potrebbe guardare le partite di calcio senza interessarsi alle statistiche sui passaggi e a quelle sul possesso palla, restando, cioè, ancorato al piano delle percezioni e delle emozioni.


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