di Nicola Sbetti
Se ti chiedono di prendere una decisione che in ogni caso scontenterà una parte dei tuoi membri e ridurrà il tuo universalismo e la tua influenza, una soluzione c’è: rimandare la scelta con tutte le tue forze finché puoi. Questa, in massima sintesi, è proprio la strategia adottata da Gianni Infantino e dalla FIFA dinnanzi alla richiesta avanzata lo scorso maggio dalla Federcalcio palestinese di sanzionare Israele.
Solo un ingenuo, infatti, poteva credere che, sebbene annunciata per quella data, il 3 ottobre si sarebbe arrivati a una decisione su uno dei più delicati temi di politica internazionale in campo calcistico degli ultimi anni. Del resto già in due occasioni (a luglio e ad agosto) il consiglio della FIFA aveva trovato delle motivazioni per rinviare qualsiasi decisione.
Senza voler entrare eccessivamente nel merito della questione, la richiesta di sanzione si poggia non solo sulle conseguenze drammatiche dell’invasione di Gaza che, fra le altre cose, ha provocato la morte di numerosi calciatori – secondo il giornalista Karim Zidan almeno 241 calciatori, di cui 174 adulti, sono morti a Gaza – e la distruzione di stadi e altre infrastrutture sportive, ma anche sull’esistenza di club di colonie israeliane nei territori palestinesi che giocano nel campionato israeliano. Allo stesso tempo, però, è lo status giuridico (extracalcistico) della Palestina a rendere meno efficace la richiesta avanzata dalla sua Federcalcio contro la consorella israeliana rispetto all’analoga richiesta ucraina, che peraltro era stata supportata da molte federazioni occidentali.
Tuttavia, come dimostra chiaramente il caso delle sanzioni alla Russia e alla Bielorussia, non è sul rigido rispetto delle norme giuridiche che le organizzazioni sportive internazionali prendono le proprie decisioni. Ciò avviene piuttosto sulla base di considerazioni politiche più generali e sui rapporti di forza interni alle singole organizzazioni sportive internazionali. In altre parole, per Infantino e la FIFA il problema è squisitamente politico. Sanzionare Israele significherebbe perdere ulteriormente la propria universalità. Inoltre, pur non essendo una potenza calcistica, la federazione israeliana è nel tempo riuscita a stringere importanti alleanze con importanti federazioni, soprattutto occidentali, e in seno alla FIFA stessa. Al contrario la Federazione palestinese può contare sul supporto, più formale che sostanziale, di alcune federazioni arabe, ma allo stesso tempo molte organizzazioni non governative e gruppi della società civile sostengono la mozione palestinese di sanzioni calcistiche a Israele.
Per Zurigo, quindi, una decisione in un senso o nell’altro provocherebbe quasi sicuramente proteste, rappresaglie e problemi, vuoi a livello istituzionale, vuoi dal basso. Per questo ritengo che non sia corretto affermare che la FIFA si stia semplicemente lavando le mani della vicenda e nemmeno è indecisa sul da farsi. Ha invece deciso di non decidere e continuerà a farlo finché le sarà possibile. Esattamente come avvenuto nel caso delle sanzioni alla Russia, dove però la pressione era stata estrema e la possibilità di adottare la strategia del wait and see è durata pochi giorni.
Inutile dire che questa scelta politica della FIFA non sia neutra, ma favorisca Israele. In ogni caso la FIFA non si trova in una posizione comoda. Vuoi perché il calcio è lo sport più popolare al mondo e anche in Palestina, vuoi perché il Comitato Olimpico Internazionale è stato più scaltro, ma al momento nel panorama sportivo, la guerra israelo-palestinese si sta “combattendo” quasi esclusivamente nel mondo del pallone.
Se vogliamo, quindi, il principale errore di Infantino nella vicenda sta a monte, ovvero nella sua scarsa pro-attività. Il CIO di Bach, a seguito dell’escalation militare a Gaza si era premurato di incontrare i vertici del Comitato olimpico palestinese (che guarda caso sono gli stessi di della Federcalcio) promettendo aiuti economici e supporto logistico in cambio di un profilo basso durante i Giochi di Parigi. Infantino non ha fatto altrettanto e si ritrova ancor oggi a dover risolvere una situazione esplosiva e in peggioramento. Lo scoppio di un conflitto regionale, infatti, potrebbe costare oltremodo anche a chi governa il mondo del pallone.
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Nicola Sbetti insegna all’Università di Bologna. Si occupa di storia dello sport e del rapporto fra sport e politica. Membro del Consiglio direttivo della Società Italiana di Storia dello Sport.