di Federico Greco *
La Paralimpiade di Parigi 2024 ha avuto un grande successo mediatico, confrontabile con quello dell’Olimpiade che negli stessi luoghi l’ha preceduta qualche settimana prima. La distanza tra le due grandi manifestazioni multisportive si sta via via riducendo, gli analisti sono tutti d’accordo.
I dati, del resto, parlano chiaro:
- Due milioni e mezzo di biglietti venduti. Era andata meglio (2.7 mln di spettatori) solo a Londra 2012, la prima volta in cui i Giochi paralimpici non furono trattati come un evento secondario rispetto a quelli olimpici
- Ciascuno dei 22 sport del programma ufficiale ha avuto la sua parte di trasmissione in diretta
- Paralimpiade visibile in TV in quasi tutto il mondo, grazie all’acquisto dei diritti da parte di broadcaster multinazionali operanti nel settore (vedi la sudafricana Supersport che trasmette in tutta l’Africa) o delle reti nazionali, evidentemente interessate a non perdere le vittorie dei propri atleti. Non mi riferisco solo alla Rai, alla cui retorica patriottica nelle grandi manifestazioni siamo assefuatti, ma anche, ad esempio, alla TV nazionale uzbeca, che mi ha permesso di vedere un po’ di gare, di sfuggita (ero lì, in Uzbekistan, in viaggio)
Accanto alla volontà di portare la Paralimpiade sullo stesso piano dell’Olimpiade, da un punto di vista della visibilità, il Comitato paralimpico internazionale (IPC) ha l’obiettivo – parallelo e complementare – di normalizzare la narrazione degli atleti e delle atlete paralimpiche.
Tante persone, nelle settimane che precedevano la Paralimpiade parigina, si saranno imbattute sui social nel post di Bebe Vio che diceva:
Io non parteciperò alle Paralimpiadi di Parigi 2024. Gareggerò
Un post azzeccatissimo che, giocando sull’allarmismo indotto dalla prima frase (E adesso senza Bebe, come fa l’Italia a vincere 70 medaglie?), metteva in rilievo come molto spesso dai media alla persona non “normodotata” sia concesso solo di partecipare e non di gareggiare, ovvero di presenziare a un evento sportivo di alto livello “nonostante-tutto”, cioè nonostante la disabilità che l’ha colpita e limitata.
Il post della schermidrice azzurra era, in realtà, lo slogan di una campagna lanciata proprio dall’IPC, di cui Vio era una delle testimonial. Come spiega bene Francesco Caremani su The SpoRt Light, è il sintomo di un cambio di rotta nel tipo di comunicazione che il Comitato paralimpico auspica/richiede/pretende: niente pietismo, niente più insistenza sull’idea che chi riesce a emergere nei parasport è un supereroe (si basava su questo nel 2012 la campagna pubblicitaria di Channel 4, broadcaster ufficiale della Paralimpiade londinese), ma accento sull’agonismo. Perché i concorsi che assegnano medaglie sono gare a tutti gli effetti.
Inoltre, in fatto di normalizzazione, non si deve dimenticare che, nel corso della cerimonia di apertura dell’Olimpiade parigina, proprio Bebe Vio era tra le modelle e i modelli che hanno inscenato sul Trocadero quella sfilata, strabordante di identità altre e corpi non conformi agli standard estetici imperanti, che tanto ha fatto arrabbiare le destre d’Europa.
Markus Rehm, Oscar Pistorius
Markus Rehm è un saltatore in lungo tedesco, classe 1988. A Parigi ha vinto l’oro nella categoria T64, che identifica coloro che hanno una amputazione al di sotto del ginocchio. Alla non più verde età di 36 anni, sportivamente parlando, ha piazzato un balzo di 8.13m, che nella finale olimpica di due settimane prima gli sarebbe valso il sesto posto. Però, nel giugno del 2023, all’International Para Athletic meeting di Rhede, ha saltato 8.72m, misura che l’attuale campione di tutto (olimpico, mondiale, europeo) Miltiades Tentoglou non ha mai ottenuto in carriera!
La prestazione. Una gara non è tale se di mezzo non c’è un punteggio, un tempo, una misura che certifichino che l’atleta X è andato/a meglio dell’atleta Y. Il record, in seconda battuta, permette di confrontare tra loro risultati ottenuti in tempi e luoghi diversi e di stabilire quale sia stato il migliore in assoluto. E lo sport moderno non può prescindere dal record, come per primo ha intuito lo storico Allen Guttmann.
Nei primi anni Duemila abbiamo avuto un po’ tutti la percezione che l’elevamento a status di atleta “vero”, per chi si dedica a specialità paralimpiche facilmente misurabili, passasse per il confronto con il record stabilito dai “normodotati”1. In quel periodo Paralimpiade voleva dire, essenzialmente, Oscar Pistorius, il velocista sudafricano che sui 400m piani nella categoria T44 sbaragliava la concorrenza e faceva tempi che ai Giochi olimpici non lo avrebbero fatto sfigurare.
Pistorius, che ha entrambe le gambe amputate sotto al ginocchio, aveva ingaggiato una battaglia con il CIO per vedersi riconosciuto il diritto a partecipare all’Olimpiade di Pechino, prima, e a quella di Londra, in seconda battuta. Nel primo caso gli era andata male, perché una serie di test condotti nel novembre 2007 all’Università di Colonia dall’equipe del professore di biomeccanica Peter Brüggemann sotto la supervisione della IAAF avevano stabilito che le protesi meccaniche con cui Pistorius correva gli garantivano dei vantaggi significativi.
Il velocista sudafricano era subito ricorso in appello al Tribunale Arbitrale dello Sport (TAS) di Losanna, forte di una nuova serie di test svolti a Houston, che mostravano come le stesse protesi lo svantaggiassero in partenza e in fase di curva, bilanciando l’eventuale vantaggio in rettilineo su cui si erano concentrati esclusivamente quelli di Colonia. Il tribunale di Losanna gli aveva dato ragione, la IAAF aveva dovuto ritirare il divieto di partecipazione alle Olimpiadi, ma per Pechino 2008 era ormai tardi.
Quattro anni dopo, a Londra, Pistorius ci andò in doppia veste: eliminato in semifinale della gara olimpica dei 400m, ma felice di aver vinto la sua lunga battaglia; oro nella gara paralimpica dei 400m nella categoria T44 e altrettanto felice2.
Tutto l’hype che si era creato intorno al personaggio e il vento in poppa per il riconoscimento dei cosiddetti blade runners si interruppe, però, di botto il 14 febbraio 2013, quando il velocista sudafricano uccise in casa la sua compagna, la modella Reeva Steenkamp, per di più cercando di far passare il femminicidio come una fatalità3.
Uno come Markus Rehm, dall’improvvisa eclissi della stella Pistorius non ne ha certo tratto beneficio. A Londra 2012 c’era anche lui, alla Paralimpiade, intendo; anzi, colse lì il primo dei suoi quattro ori consecutivi nel lungo, precisamente nella categoria F44 (sulla modifica delle categorie paralimpiche tornerò successivamente). La voglia di partecipare ai Giochi a cinque cerchi, forse, nacque in quel frangente. Fatto sta che nel 2014, a Ulm, saltando 8.24m, Rehm si portò a casa il titolo nazionale tedesco assoluto, battendo anche i “normodotati”; questo mise in preallarme la European Athletic Association (EAA) che chiese alla IAAF di prendere una decisione in merito e di autorizzarne, eventualmente, la partecipazione all’imminente Europeo di Zurigo. Finì che fu la federazione nazionale tedesca a tornare indietro sui suoi passi e a decidere di non includere Rehm tra i convocati, citando rilevazioni di carattere biometrico fatte a Ulm, ovvero durante la competizione! La vicenda non ebbe tutta la risonanza mediatica avuta da quella di Pistorius, anche perché, evidentemente, il lunghista non aveva la possibilità di assoldare «uno dei più grossi studi legali statunitensi».4
Al Campionato tedesco dell’anno successivo Rehm fece nuovamente segnare la miglior misura nel salto in lungo, ma non vinse il titolo perché gareggiava fuori concorso; fece poi una comparsa al meeting indoor di Glasgow nel febbraio 2016 (anche qui gara vinta), poi tornò a dedicarsi solo alle manifestazioni per atleti paralimpici.
Vero è che, come sottolineato in precedenza, l’ottica, con cui si narrano le Paralimpiadi, è cambiata negli ultimi anni, tanto che adesso si è cementata nei singoli atleti e nelle singole atlete una sorta di orgoglio paralimpico e, quindi, non si sente più la necessità di inseguire il riconoscimento degli “altri” attraverso la dimostrazione che si è in grado di offrire prestazioni sportive da “normodotati”… Tuttavia, non si può ignorare il fatto che Markus Rehm sia stato rifiutato da un mondo che non si era neanche interessato a studiare in che modo il saltatore tedesco potesse essere incluso e demandava allo stesso Rehm, il diverso, l’onere di produrre le prove che potessero giustificare la sua inclusione.
Mumble, mumble… Dove l’ho già sentita una storia simile?
In nome della fair competition.
Sulla vicenda della mezzofondista sudafricana intersex Caster Semenya o su quella della nuotatrice M2F Lia Thomas mi sono soffermato spesso, mettendo in luce come in ambito sportivo sia loro negato, in primis, il diritto a essere riconosciute per quello che sono. E parlare di diritti negati è centrale in un momento in cui nella “vecchia” Europa ottengono sempre più spazio partiti e movimenti politici che fanno degli attacchi ai “diversi” una loro bandiera, siano essi migranti o persone LGBTQIA+. Basta vedere quali e quanti haters illustri hanno attaccato sui social nel corso dell’estate 2024 la pugile Imane Khelif o la velocista Valentina Petrillo, che – ricordo – avevano tutto il diritto di gareggiare a Parigi perché non violavano le regole fissate, rispettivamente, da CIO e ICP.
Ai nomi di Semenya e Thomas si possono aggiungere quelli delle due giovani velociste namibiane Mboma e Masilingi che, dopo Tokyo 2020, sono state fatte fuori da qualsiasi possibilità di competere ad alti livelli perché per World Athletics il loro livello di testosterone naturale è divenuto fuori legge anche per correre i 200m5. C’è poi la sollevatrice Laurel Hubbard, la prima atleta transgender a cinque cerchi, che dopo l’Olimpiade giapponese si è ritirata, ma che, comunque, non avrebbe potuto partecipare a Parigi 2024 perché, nel frattempo, la International Weightlifting Federation (IWF) ha stabilito che chi non ha compiuto la transizione M2F prima della pubertà non può partecipare a gare femminili.
Tutte queste atlete sono state escluse dalla categoria donna in nome della fair competition, della competizione equa che, per gli organi sportivi di riferimento, in loro presenza non sarebbe garantita, visto il vantaggio che darebbe loro una transizione in età adulta o una concentrazione elevata di testosterone nel sangue, benché naturale.
In questo articolo, però, non voglio nuovamente affrontare questioni inerenti il diritto che ogni persona ha di essere riconosciuta, in ogni ambito sociale, in base al genere cui si sente di appartenere (o di essere riconosciuta come al di fuori della gabbia del genere, vedi la mezzofondista statunitense Hiltz). Questa volta, voglio sfruttare l’effetto Paralimpiade per mostrare come, in realtà, il CIO avrebbe da tempo una via da battere per risultare più inclusivo nei confronti di chi è ritenuto non standard.
Una competizione per classi diverse di disabilità.
Quando si parla di specialità paralimpiche (magari perché c’è da segnalare una nuova vittoria azzurra), anche per i siti specializzati fare titoli corretti al 100% non è facile. Ad esempio, il 7 settembre 2024 Skysport annunciava:
Paralimpiadi, oro Caironi nei 100 metri
Ora, Martina Caironi all’oro è (quasi) abbonata dal 2012 ed è una delle atlete paralimpiche più conosciute in Italia, partecipa a seminari, conferenze motivazionali e va spesso nelle scuole a raccontare la sua storia. Però, ci sono altre dodici velociste al mondo che -come lei- possono a ben diritto affermare di aver vinto i 100 metri alla Paralimpiade parigina, semplicemente perché erano tredici le finali femminili su quella distanza, una per ciascuna delle categorie in cui le sprinter sono attualmente divise6.
Sul sito ufficiale del CIO è spiegato a cosa serve e come funziona il sistema di classificazione. Anche qui si parla di garantire una «fair competition between all athletes». L’impatto, che ha ciascuna disabilità, può variare da sport a sport e da una specialità a un’altra, all’interno della stessa disciplina; coloro che hanno disabilità ritenute paragonabili, pur se classificate in modo diverso, possono essere fatti rientrare in un’unica categoria.
Cosa succede quando ciò accade? Nel ciclismo su pista, nella prova del km da fermo, corridori e corridrici di tre classi diverse (C1, C2 e C3) si contendono lo stesso titolo paralimpico, ma c’è un meccanismo che prova a bilanciarne le prestazioni. Più basso è il numero della classe di appartenenza, maggiore è il grado di disabilità: quindi, paresi, emiplegie, amputazioni sono più gravi in chi è di classe C1, meno gravi in chi è di classe C3. Per questo il tempo fatto registrare da un/una C3 vale come tale, mentre si applicano dei fattori di riduzione a chi è di classe C2 e C1 (rispettivamente, 94.50% e 92.01%). Il risultato è che con 1’04″825 Jaco van Gass (C3) è finito dietro Li Zhangyu (C1) che ha fatto segnare un crono superiore, 1’08″993, ma che al netto della riduzione, equivale a un 1’03″480.
Meccanismo complesso? Troppo agevolati quelli di classe C1? La questione importante, per l’analisi che sto conducendo, è un’altra: quella appena illustrata è una regola stabilita a monte da medici e tecnici del Comitato paralimpico, gente che si occupa del sistema di classificazione e che, evidentemente, a seguito dei dati raccolti, ritiene tutto questo fair. Ora, se è lecito “aiutare” chi ha una disabilità più grave per far sì che il gioco sia più equo, perché il CIO non agisce al contrario con chi ritiene abbia un unfair advantage?
Non mi riferisco solo alle Semenya, alle Mboma o alle Thomas, ma anche al saltatore in lungo Markus Rehm, della cui vicenda ho parlato più approfonditamente nella prima parte: ebbene, a lui fu impedito il confronto con i “normodotati” perché, secondo la stessa sua federazione, traeva un illecito vantaggio dalla sua protesi.
Magari, conducendo degli esperimenti ad hoc, esperti nominati dal Comitato olimpico potrebbero misurare/dare un valore al supposto vantaggio che viene imputato a Rehm (rispetto ai saltatori in lungo “normodotati”) o a Mboma (rispetto alle velociste che hanno un livello di testosterone considerato standard). E, quindi, applicando degli opportuni fattori di conversione, stabilire – sparo a caso – che un 8.50m di un amputato con protesi vale quanto un 8.15m di un “normodotato” o che un 22″80 sui 200m di una donna con una concentrazione di testosterone nel sangue maggiore di 2.5 nanomoli per litro vale quanto un 23″45 di una che ne ha meno di 2.5.
Quanto si può davvero sperare che tutto ciò possa anche solo essere preso in considerazione in futuro? Poco. L’onere di dimostrare che non si gode di un vantaggio è sempre toccato a chi è divers@ e gli organismi che governano le varie discipline sportive non si sono mai preoccupati di condurre studi autonomi sulle questioni emerse via via. Hanno agito sempre e solo ex post, spesso imponendo divieti, altre volte sbandierando una inclusività di facciata che vale fino a che le regole non vengono rese ulteriormente stringenti.
C’è poi un altro ostacolo. Utilizzare fattori di conversione potrebbe voler dire che la persona che taglia per prima il traguardo o che fa il salto più lungo non è la vincitrice. Tutto ciò potrebbe essere ritenuto da CIO e soci un elemento a danno dello spettacolo, della fruibilità televisiva dell’evento, del ritorno economico degli sponsor. Del resto, mi sembra che nella stessa atletica paralimpica si sia tornati indietro in alcune specialità: a Londra 2012, nel salto in lungo F44, gara che consegnò il primo titolo paralimpico a Rehm, ogni salto era trasformato in un punteggio, in base alla disabilità di chi saltava (e così il giapponese Yamamoto con 5.95m arrivò prima del cinese Wang, che ottenne 6.27m); a Parigi 2024, nel salto in lungo categoria T64, gara del quarto alloro di Rehm, il sudafricano Mpumelelo Mhlongo ha fatto il record del mondo nella sua classe, la T44, ma è arrivato quinto, dietro tutti quelli della T64 che avevano saltato più di lui. E T64 e T44 saltano nella stessa categoria, senza fattori di conversione, sebbene la prima sigla indichi chi è amputato a una gamba sotto al ginocchio, mentre la seconda indica chi le sue gambe ce l’ha, ma ha una disabilità che ne limita le funzioni motorie7.
Finale aperto.
Non so quanto la proposta qui contenuta sia originale o quanto lo sia stato il parallelismo proposto tra atleti e atlete che hanno delle prestazioni ritenute non standard, rispetto alla categoria di riferimento, a causa di supposti vantaggi. Siano essi meccanici, ormonali o costituzionali.
Di certo, i cosiddetti disability studies hanno trovato il loro spazio negli studi accademici ben prima dei gender studies, pur essendo accomunati dalla stessa tensione verso la creazione di una società che dia a tutte le persone la possibilità di autodeterminarsi. Il fatto è che, in ambito sportivo, l’autodeterminazione per sportivi e sportive con disabilità ha preso un significato decisamente diverso dopo il 2012: l’ultimo anno in cui ha brillato la stella Pistorius, che lottava per vedersi riconosciuto il diritto di gareggiare con i “normodotati”; il primo anno in cui la Paralimpiade è stata trattata mediaticamente come evento a sé stante, degno di attenzione.
Invece, per le atlete intersex e M2F autodeterminarsi vorrebbe dire potersi iscrivere nella categoria donne, senza essere sottoposte alla tortura psicologica degli attacchi social e, per le prime, anche senza essere costrette a fare terapie ormonali per limitare la naturale produzione di testosterone. Per questo di uno spazio a loro riservato, di una categoria ad hoc, come quella open provata da World Aquatics nel 2023, non sanno proprio che farsene. Ed è questo il motivo per cui per il CIO le vicende di un Rehm o di una Semenya sono questioni molto distanti tra loro.
- Mi riferisco, ad esempio, ad atletica, nuoto, alle cronometro del ciclismo o alle discipline in cui si tira a un bersaglio ↩︎
- Nel 2011 Pistorius vinse l’argento nella 4x400m al Mondiale IAAF, grazie al contributo da lui dato alla staffetta sudafricana in batteria. Non corse, quindi, in finale, ma diventò parimenti il primo atleta paralimpico a vincere una medaglia in una competizione iridata di atletica riservata ai “normodotati” ↩︎
- Pistorius dichiarò inizialmente che aveva scambiato la sua compagna per un intruso e perciò le aveva sparato. Il sudafricano è stato condannato a 13 anni di reclusione, anche se dal gennaio 2024 è fuori con la condizionale ↩︎
- Usa queste parole Dario Ricci in Oltre Pistorius: i blade runners sono diventati atleti veri (Quaderni della SISS, n° 9, Sport e Rivoluzione, pagg. 205-207) per indicare il team legale che supportò Pistorius nell’appello al TAS ↩︎
- La federazione internazionale di atletica ha abbassato i livelli limite di testosterone ed esteso le specialità a cui applicare questa restrizione dopo l’Olimpiade giapponese. Mboma e Masilingi erano specialiste dei 400m, ma proprio a causa del livello naturale di testosterone, a Tokyo 2020, si erano potute iscrivere solo ai 200m, specialità in cui Mboma aveva poi vinto l’argento ↩︎
- Caironi, per informazione, ha vinto i 100 metri T63, categoria in cui gareggia chi, come lei, ha una gamba amputata al di sopra del ginocchio ↩︎
- Per inciso, nei 100m gli/le appartenenti alle due classi T44 e T64 gareggiano in categorie separate ↩︎
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* Federico Greco, insegnante di Matematica e/o Fisica al Liceo, a partire dal 2011 ha coniugato il suo spirito da ricercatore con la passione per lo sport, riversandole nel blog Calcio Romantico e nei libri Calcio (poco) romantico (Urbone Publishing, 2016, scritto in collaborazione con Daniele Felicetti) e Cinque cerchi di separazione, storia di donne e di barriere da loro infrante nel mondo dello sport (Pagina Uno, 2021). Membro della Società Italiana di Storia dello Sport da alcuni anni, dal 2018 il suo principale argomento di ricerca è il rapporto tra sport e genere. Su questo tema ha tenuto talk ai Convegni SISS 2018, 2019 e 2021. Gli articoli relativi sono pubblicati o in attesa di pubblicazione sulla rivista I Quaderni della Società Italiana di Storia dello Sport.