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Il diritto alla vittoria

Nel ciclismo vi è questa consuetudine nel ritenere doverosa la magnanimità del vincitore: far vincere gli altri serve a tener lontani i sospetti da sé stessi

di Guglielmo De Feis

Il fuoriclasse sloveno Tadei Pogačar – a ventisei anni di distanza dall’analoga impresa di Marco Pantani – è riuscito a vincere nella stessa stagione sia il Giro d’Italia sia il Tour de France. Pogacăr – come già fatto da Eddy Merckx negli anni ’70 – durante le corse a tappe, non si limita a vincere amministrando il vantaggio in classifica, ma attacca in ogni circostanza gli sia possibile farlo, anche quando il contesto della gara e le contingenze di classifica non lo richiederebbero. Purtroppo nel ciclismo per svariati motivi vi è un particolare – e tipicamente culturale – senso del fair play, che imporrebbe al ciclista più forte di concedere, con magnanimità, ai suoi più importanti avversari, non solo l’onore delle armi ma, addirittura, le vittorie a lui non indispensabili.

La consuetudine, infatti, vuole che la maglia gialla o la maglia rosa (ovvero il leader della classifica generale) conceda la vittoria parziale, quella di tappa, al miglior avversario di giornata che lo abbia coraggiosamente sfidato. Questa consuetudine diventa addirittura un obbligo morale – se non perfino un imperativo categorico – quando l’avversario di giornata è anche il miglior rivale possibile nella classifica generale.

Esistono alcuni motivi concreti che possono, almeno in parte, giustificare questa consuetudine tipica del ciclismo.

In questo sport si corre tutti quanti in gruppo e quindi non solo “contro”, ma anche “insieme” agli avversari. Infatti, come anche il peggior ciclista della domenica ben sa, stare a ruota, invece che davanti, fa molta differenza.

In uno sport outdoor, che prevede pochissime eccezioni atmosferiche al suo regolare svolgimento, poter condividere con gli altri lo sforzo del “tagliare l’aria” è sempre stato – e sempre sarà – un deterrente a…