Nel rapporto tra lo sport e i suoi cantori, lo sci nella letteratura ha un posto probabilmente di secondo piano rispetto ad altre discipline. Lo sci come tale, non la montagna, che è altro, perché sulle spalle dei giganti – i ghiacciai – sono state scritte pagine invece memorabili, quelle di alpinisti e scalatori che hanno potuto vedere un mondo non alla portata di miliardi di persone. Lo sci, si diceva: a dispetto di altri sport, nella letteratura del Novecento l’agonismo è quasi inesistente – sebbene, ne Il secondo sesso (1949), Simone de Beauvoir in un inciso cita proprio lo sci per reclamare parità: «Il campione femminile di sci non è l’inferiore del più veloce campione maschile», scrive – e spesso lo sci si trova come splendido attore non protagonista, anche e soprattutto a causa della meraviglia dello scenario in cui, per definizione, si compie. Però, che diamine, ecco Jean-Paul Sartre.
Il significato dello sci non è solo di permettermi degli spostamenti rapidi e di acquistare un’abilità tecnica, né di giocare aumentando a mio piacimento la velocità o la difficoltà della corsa: è anche di permettermi di possedere questo campo di neve. […] Ora ne faccio qualche cosa. Ciò significa che, con la mia stessa attività di sciatore, ne modifico la materia e il senso.
È L’essere e il nulla, 1943, e se è vero che è stato principalmente l’esistenzialismo a dare un’aura filosofica allo sci, è vero anche che proprio il passo citato è qualcosa di ricco e di definitivo: possedere la neve, modificarla solcandola, l’esaltazione del gesto dell’individuo su di essa. «Ne modifico la materia e il senso». Se ne può parlare, certo, ma non c’è Foster Wallace per il tennis né forse Hemingway per il pugilato che tenga (e tralasciamo la letteratura sul calcio), non così, non con …