Tra i vari aspetti che hanno reso il calcio così popolare nel Novecento, c’è anche quello relativo alla replicabilità del gioco, ovvero la possibilità di riproporre, in campetti più o meno periferici e più o meno raffazzonati, le gesta dei campioni nei grandi stadi. Un pallone, due porte, un manipolo di persone disposte a giocare, ecco il trucco: quello di allora, quello di sempre, e in fondo vale anche oggi, nonostante l’offerta sportiva sia molto più vasta e i campi non siano più così tanto frequentati da ragazzini e ragazzine, come invece accadeva un tempo. Tant’è, ci sono vari motivi che spiegano quest’ultimo rilievo, il punto non è questo: dicevamo della replicabilità del gioco, ovviamente con le giuste proporzioni, ma il bello è sempre stato esattamente questo, e cioè poter vivere per qualche decina di minuti, anche senza mezzi tecnico-tattici, all’incirca ciò che i professionisti vivono nella loro quotidianità .
La base, eccola lì, il calcio di tutti. Da diversi anni l’assunto di cui sopra non vale poi così tanto. Non più, almeno non così, perché la distanza tra la base e il vertice sta aumentando in maniera esponenziale, proprio a causa di quella tecnologia che, inevitabilmente e giustamente, sta segnando lo sviluppo delle regole e un nuovo spirito del tempo. La distanza attuale non è, verosimilmente, ancora esiziale. Eppure, mano a mano che diventa più netta (e non può che ampliarsi), può diventare in qualche modo un problema per il futuro del calcio.
Goal line technology, VAR e fuorigioco semiautomatico sono migliorie che funzionano e che rendono (o dovrebbero rendere) tutto piuttosto coerente. Il margine di errore degli arbitri viene limitato – non eliminato, sia chiaro – e, soprattutto per i riferimenti puramente geometrici (palla dentro o fuori, calciatori in gioco o meno), come si dice, a chi tocca nun s’engrugna. Lo stesso dicasi per il fuorigioco: si può magari discutere lâ…