Monografia

Sul campo, in pista: morti sul lavoro

Quando un atleta muore in gara, si fa leva sull’emotività, perché gli eroi son tutti giovani e belli. Ma sono morti bianche. E c’è sempre una causa

Partita di calcio a 5, un campionato FIGC regionale. Scontro frontale portiere pivot: impatto violento, con il primo che cade di spalle in maniera altrettanto violenta. Fa male anche solo a vederla, si percepisce.
Non si rialza.
È immobile.
Panico. 
Sono secondi, e fanno paura. Un medico non c’è, in tanti per fortuna sanno cosa fare, ma fra le teoria e la pratica c’è un abisso quando le cose accadono. Il soccorso immediato è stato quello giusto. Ma solo perché, per fortuna, non era un arresto cardiaco.

È successo circa un anno fa. Chi scrive era in panchina, non come atleta ma come dirigente tesserato: ebbene, quei secondi sono stati eterni, e non solo per la conoscenza con la persona coinvolta, né perché era la prima volta che una situazione del genere, in campo, capitava direttamente sotto i miei occhi; no: quei secondi sono stati eterni proprio perché, in anni di giornalismo, le morti di sport sono state una costante. Sembra strano dirlo, perché in realtà sembra una cosa rarissima, e in effetti sui grandi numeri è tale, eppure nell’archivio della mente c’è una Spoon River di fatalità, incidenti e tragedie che, a metterle in fila, fa spavento e potrebbe apparentemente smentire l’assunto di cui sopra,  ovvero la rarità. Perché, comunque, sono sempre troppe, e ciò non è contemplato, nell’idea dello sport che è sinonimo di vita.

D’altronde, quando un atleta muore in gara, si fa leva sull’emotività, perché gli eroi – quelli sono nell’immaginario collettivo – son …

Lorenzo Longhi
Emiliano, ha esordito con il primo quotidiano italiano esclusivamente web nel 2001 e, da freelance, ha vestito (e smesso) casacche anche prestigiose. Di milioni di righe che ha scritto a tamburo battente gran parte è irrilevante. Il discorso cambia quando ha potuto concedersi spazi di analisi.