di Nicola Calzaretta
Il portiere. Per tante stagioni il numero uno, la targa che lo identificava. Molto spesso vestito di nero con la maglia a coprire le braccia fino ai polsi. Un misto di poesia e prosa. Per quel suo essere solo e solitario (triste no), ma soprattutto per quella sua peculiare facoltà, solo a lui concessa: poter toccare il pallone con le mani. Il portiere, detto anche goalkeeper, arquero, gardien de but, goleiro, torwart a seconda delle latitudini e delle priorità. Una figura fondamentale nel gioco del calcio, da cui non si può prescindere.
Eppure agli inizi del football, prima metà del diciannovesimo secolo nel Regno Unito, il portiere, così come lo conosciamo noi, non era nemmeno contemplato. Nasce e si sviluppa nel tempo, partita dopo partita. Sono le public schools e le università britanniche a dedicarsi al pallone. Ognuno applica proprie regole e inizia a definire propri codici per una babele di norme e interpretazioni, con alto livello di impermeabilità tra scuola e scuola. Quello che viene praticato nei vari college, in realtà, è un misto tra calcio e rugby, un ibrido peraltro destinato a durare poco, nel 1863 nasce la Football Association. E in questo processo di scissione, la sagoma del portiere si scontorna sempre di più. Uno dei nodi, infatti, è l’uso delle mani. Che inizialmente viene consentito a ciascun giocatore, in qualunque parte del campo, anche se si fa divieto di trattenere la palla e, soprattutto di correre tenendola in mano. Ma siamo ancora ai primordi, Manca il concetto di difesa e la porta è un’entità che ri…