di Antonella Bellutti
Non saprei dire quante volte mi è stato chiesto cosa si prova a essere sul gradino più alto del podio mentre suona l’inno nazionale e la bandiera sale sul pennone. Capita spesso ancora oggi, a oltre vent’anni di distanza dai fasti. È stata una grande sorpresa per me, atleta donna di uno sport in Italia poco considerato, tornare da Atlanta con la prima medaglia olimpica al collo e percepire quanto quella gioia (che pensavo solo mia e frutto di un’attività interessante solo per pochi addetti ai lavori) fosse condivisa e motivo di orgoglio popolare.
Ricordo il quartiere in festa al mio arrivo a Bolzano, per la prima volta unito come una grande armoniosa famiglia per la quale madrelingua e provenienza non avevano più peso né senso; poi la grande festa organizzata dal Comune con tanto di fuochi d’artificio; e le innumerevoli manifestazioni di tutti i luoghi che in qualche modo ho vissuto e che volevano festeggiare e rivendicare una briciola di quell’oro.
Un’esperienza bellissima che mi ha fatto toccare con mano la forza dello sport come veicolo di valori e strumento di liberazione, crescita, emancipazione. Ma quella domanda che mi veniva posta e mi viene posta anche oggi da persone così diverse per età, formazione, scelte di vita, ecco quella domanda mi ha fatto riflettere a lungo.
Che senso ha?
Perché quel momento risulta così coinvolgente?
La mia risposta è che forse quella ritualità riesce a far risuonare i sogni di tutti; con ‘tutti’ intendo coloro che ancora sperano di realizzarlo, coloro che rimpiangono le occas…