Quattordici trofei da giocatore, altrettanti da allenatore, tra i quali si staglia il capolavoro dell’Europeo vinto nel 2021 nella finale di Wembley contro l’Inghilterra. Racchiudere la carriera di Roberto Mancini in questi numeri è impossibile, lo è per tutti gli sportivi, ma è un punto di partenza. Giocatore straordinario, ha dato il meglio di sé con Sampdoria e Lazio e ha avuto un rapporto difficile con la Nazionale, anche per la contestuale esplosione di Roberto Baggio. Ma nelle agiografie giornalistiche si dimenticano spesso dei passaggi a vuoto che, come le vittorie, raccontano l’uomo e il personaggio, perché se è nelle difficoltà che si vede la personalità, quella di Roberto Mancini ha delle evidenti fragilità: dal ‘vaffa’ ai giornalisti dopo il gol alla Germania Ovest a Euro ’88 al litigio storico e plateale con l’arbitro Nicchi, in una partita di campionato (Sampdoria-Inter, 5 novembre 1995); di sicuro non è uno che ama le critiche, per quanto queste possano essere funzionali o disfunzionali.
Ma è soprattutto nella carriera di allenatore che non mancano alcuni peccati originali, senza considerare che nel periodo laziale, tra amicizie giornalistiche – cercare al Corriere dello Sport – e finanziarie – la famiglia Geronzi –, si era creato una comfort zone capace di metterlo al riparo da qualsiasi critica, appunto, ma non a tempo indeterminato, come vedremo.
Da allenatore in campo ad allenatore tout court il passaggio non è stato né breve né indolore.
Alla Lazio, dove nel 2000 inizia a fare il vice pur continuando a giocare, lo aveva voluto Sven Goran Eriksson dopo essersi sfiorati alla Sampdoria. Una presenza ingombrante stando a una dichiarazione sibillina di Diego Fuser resa durante un’intervista nel 2014: «Sono andato via a 29 anni perché a qualcuno non andavo bene: volevo finire la carriera in biancoceleste, ma qualcosa non andò bene con qualcuno che voleva fare l’allenatore in campo».
Mancini, a un certo punto, si è reso conto che non poteva più dare niente sul t…