D’accordo, bella la Coppa delle Coppe, magnifica la Champions League con le migliori squadre del continente, imprescindibili gli appuntamenti delle finali, con i riti sempre pronti a ripetersi, il consueto corollario delle speranze dei tifosi e delle narrazioni degli aedi, le liturgie che si ripetono in uno schema collaudato anno dopo anno. Belle, sì, le coppe europee del calcio sotto l’egida UEFA. Belle, sì, ma attenzione a non farne un totem incontestabile e inattaccabile. Perché niente è per sempre e, in un’ottica evolutiva, è anche meglio che sia così.
La memoria selettiva e le emozioni che la possibilità di sollevare al cielo un trofeo internazionale suscitano portano infatti troppo spesso a dimenticare che, se per un mese tra maggio e giugno siamo tutti ipnotizzati dal momento topico del calcio europeo d’élite, si tratta dello stesso calcio che per undici mesi critichiamo perché da vent’anni ormai è stato venduto al migliore offerente, dello stesso calcio i cui dirigenti (messaggi di facciata a parte) sono incapaci e in fondo poco interessati a debellare il razzismo dagli stadi, dello stesso calcio che, a margine di quelle stesse finali in campo neutro, non riesce ad arginare episodi di violenza o di pessima gestione dell’ordine pubblico, dello stesso calcio gestito da un ente privato pronto alla guerra se un altro ente privato prova a mettere le mani su un giochino che dice essere di tutti, ma ritiene, in realtà, cosa sua.
Lo sappiamo e ce ne rendiamo conto, salvo poi scioglierci quando passa l’inno calcistico più a…