di Antonella Bellutti
Nell’epoca della performance (così definiscono i sociologi questa fase della società occidentale) tutto ciò che non è prestativo o sembra non esserlo per il modello di successo, bellezza, efficacia a cui si deve aspirare – e di conseguenza conformare – è innegabilmente un tabù. C’è però un particolare che diventa sempre più pesante nel minare la solidità di questa interdizione ed è l’invecchiamento della società. Un dettaglio determinante che perciò inizia anche a essere considerato interessante. Gli ultimi dati ISTAT rivelano che oggi un italiano su quattro è ultrasessantacinquenne (nonostante il 90% dei decessi causati dalla pandemia negli ultimi tre anni, abbia riguardato persone over 65) e che l’Italia è seconda per longevità solo al Giappone (negli ultimi due decenni sono triplicati gli ultracentenari ora arrivati a ventiduemila). Ma quando si diventa vecchi?
La scienza ci dice che la perdita di capacità funzionale (in un organismo sano) connessa all’invecchiamento può essere ricondotta a quattro fasi (Shepard, 1997). La prima fase, cosiddetta della “mezza età” va dai 40 ai 65 anni e viene associata a una perdita delle funzioni biologiche tra il 10 e il 30%. La seconda fase definita “young old age” va dai 65 ai 75 anni e corrisponde a un’ulteriore perdita delle funzioni biologiche ma senza che si evidenzino drastiche compromissioni dell’equilibrio generale. Segue la seconda età anziana “very old age”, compresa tra i 75 e gli 85 anni, fase dell’invecchiamento caratterizzata da un declino funzionale nell’ambito delle normali attività quotidiane ma con il soggetto ancora capace di mantenere una sua indipendenza funzionale. Infine la quarta fase, la “oldest old age”, che si riferisce a chi ha superato l’ottantacinquesimo anno di vita. Ma basta aver compiuto un certo numero di anni per rientrare in un determinato quadro fisiologico?
La sci…