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Mondiale femminile con vista saudita

Nello sport, che celebra le donne e le loro vittorie, si fanno passi indietro nell’affermazione della gender equality

di Antonella Bellutti

Il Comitato Olimpico Internazionale lotta per la sua credibilità: nell’ultimo decennio si è dotato di agende, di piani strategici per inseguire la coerenza con i valori che hanno ispirato e continuano ad animare l’universalità dei cinque cerchi. Inclusione, gender equality, sostenibilità ambientale sono pilastri di un’azione complessa che tenta di colmare il solco, sempre più ampio, che si era andato creando tra gli ideali ispiratori dell’olimpismo e la loro applicazione. Le federazioni internazionali e, a cascata, i comitati olimpici e le federazioni nazionali sono chiamate a muoversi nell’ambito dalle indicazioni delineate dal vertice del sistema sportivo internazionale, ovvero il CIO. Stride dunque che proprio la potente federazione internazionale calcistica perseveri nell’operare scelte a dir poco discutibili.

Non si è ancora placata la polemica sulla gigantesca azione di sportwashing rappresentata dal mondiale in Qatar che un’altra già è arrivata a scuotere l’opinione pubblica. Pare che l’Arabia Saudita, tramite il suo marchio turistico Visit Saudi, abbia raggiunto un accordo con la federazione internazionale per diventare lo sponsor principale della Coppa del Mondo di calcio femminile, ospitata la prossima estate in condivisione tra Australia e Nuova Zelanda. Un primo caso di sport e pink washing, una doppia strumentalizzazione con l’aggravante del sarcasmo. «Come se McDonald fosse sponsor di un convegno per risolvere il problema dell’obesità» scrive il Guardian commentando la notizia.

In effetti, sfruttare il più grande evento femminile del più popolare sport mondiale, in un’azione mirata a rivalutare l’immagine dell’Arabia Saudita (che nel non lontano 2019 il Global Gender Gap Report posizionava al centoquarantaseiesimo posto su centocinquantatré Paesi analizzati) sa di danno a…