In Italia sono circa 2.500 gli atleti tesserati per i Gruppi sportivi militari – Esercito (1960), Carabinieri (1964), Aeronautica, Marina Militare e Guardia di Finanza (Fiamme Gialle) – e dei Corpi dello Stato: Polizia (Fiamme Oro, 1954), Vigili del Fuoco (2013) e Polizia Penitenziaria (Fiamme Azzurre). Una condizione che richiama i Paesi dell’ex blocco sovietico più che lo sport professionistico d’avanguardia e per questo spesso criticata e stigmatizzata, senza considerare che, diversamente, molti di loro non potrebbero praticare la disciplina preferita ai massimi livelli, ma solamente come dilettanti.
Ai Giochi Olimpici di Barcellona, nel 1992, rappresentavano il 27 per cento della spedizione italiana, a Londra nel 2012 erano il 63 per cento del totale, con l’89% di medaglie rispetto al 77% di Pechino 2008: a Rio de Janeiro nel 2016 26 delle 28 medaglie degli azzurri sono state vinte da atleti stipendiati dallo Stato. A Tokyo 2020 (2021) gli atleti di Stato, come comunemente sono chiamati, erano 129 su un totale di 384, tra Esercito (47), Marina (14), Aeronautica (30) e Arma dei Carabinieri (38), ai quali ne vanno aggiunti altri 72 della Polizia di Stato, più Vigili del Fuoco e Penitenziaria.
Un’anomalia tutta italiana, come sottolineato, criticata e accettata al tempo stesso: la critica nasce dal fatto di pagare degli atleti, dopo il loro accesso a un corpo sportivo militare tramite concorso, per allenarsi e gareggiare; l’accettazione dalla considerazione che altrimenti in Italia non esisterebbe lo sport d’élite escluso alcune discipline professionistiche, come il calcio per esempio, o a…