Arcobaleno «Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare», diceva Don Abbondio ne “I promessi sposi”. Migliore frase non ci poteva essere per sintetizzare quello che è accaduto in Inghilterra-Iran, al di là del campo. Da una parte, infatti, i giocatori iraniani non hanno cantato l’inno nazionale per protestare contro la repressione interna e hanno apertamente inneggiato alla rivolta che sta attraversando il Paese. Rischiano la vita e rischiano, sicuramente, l’incolumità dei familiari che abitano ancora in Iran. Dall’altra la nazionale inglese, e non solo, che di fronte alla minaccia di vedere ammonito il proprio capitano ha ritirato la fascia One Love, che era un messaggio per sostenere i diritti della comunità Lgbtqia+, in un Paese, il Qatar, dove l’omosessualità è fuorilegge. Mentre il capitano dell’Iran in conferenza stampa ricordava «il dio dell’arcobaleno», in onore di Kian Pirfalak, bambino ucciso dalle forze dell’ordine iraniane. Perché è sempre una questione di scelte.
Tradizione L’esordio eccellente contro l’Argentina, inaspettato per quasi tutti, a parte qualche attento addetto ai lavori, ha proiettato l’Arabia Saudita in una nuova dimensione. Come e più del Qatar è un Paese criticato e stigmatizzato per le operazioni di soft power attraverso il calcio, leggasi Newcastle United, ma con il vicino ha una differenza enorme in termini di immagine calcistica proiettata. La nazionale saudita ha una storia internazionale iniziata nel 1994, quando ha partecipato al suo primo Mondiale raggiungendo gli ottavi di finale. A cavallo degli anni Ottanta e Novanta ha vinto tre coppe d’Asia, arrivando tre volte seconda, tre coppe delle Nazioni del Golfo e vanta un secondo posto anche nella Confederations Cup del 1992. L’Arabia Saudita si candiderà con Egitto e Grecia per il Mondiale del 2030. Difficile che la candidatura vinca, ma certamente nessuno potrà dire che questo Paese e la sua nazionale non hanno una tradizione calcistica.
Novità Centinaia …
