Era fine maggio, si correva il Giro d’Italia, in Rai il Processo alla tappa aveva tra gli ospiti Mario Cipollini a discettare dei massimi sistemi, dell’invadenza dei direttori sportivi, della tecnologia, nonché della necessità per il ciclismo italiano di ritrovare un ruolo di primo piano. Perché, ha sostenuto, «noi italiani abbiamo insegnato a tutti a fare ciclismo: la matematica del ciclismo è nata grazie a due scienziati, uno che si chiamava Conconi e l’altro Ferrari, che hanno aperto un mondo completamente nuovo. E noi ora siamo indietro a tutti».
Presi a modello quali inventori del ciclismo modello, i dottori Francesco Conconi e Michele Ferrari sono stati squalificati per l’utilizzo di pratiche dopanti su atleti di varie discipline (il primo salvato dalla prescrizione, il secondo addirittura radiato), come notava nella sua rubrica Cultural Intelligence il nostro Guglielmo De Feis. Un aspetto, questo, che proprio De Feis spiegava così: «Per chi è fuori dal gruppo sociale dei ciclisti praticanti, il doping è definito da una legge (o da una regola) che dichiara illegale (o irregolare) l’uso di una sostanza o di una pratica terapeutica. Invece, per un ciclista praticante, il ‘doping’ è normale o anormale semplicemente in base a quale sia la norma sociale che definisce l’uso consentito di un determinato farmaco […]. In pratica, secondo questa logica, una legge dell’Agenzia Mondiale Antidoping (WADA) o dell’Unione Ciclistica Internazionale (…