La storia di Dick e Rick Hoyt non è inedita, ma racconta bene come lo sport può salvare la vita, tua e degli altri. Racconta il rapporto tra un padre e un figlio. Racconta le cicatrici che ognuno si porta dentro e che alla fine sono, probabilmente, quelle sensazioni per cui vale la pena attraversare questo cammino terreno. C’è una frase nel finale del film Hellboy, tratto da un famoso fumetto, una frase che ricorre spesso nei miei pensieri: «“Cos’è che fa dell’uomo un uomo?”. Si chiese una volta un mio amico. Forse le sue origini? Il modo in cui nasce alla vita? Io non lo credo. Sono le scelte che fa. Non come inizia le cose, ma come le finisce». Una delle domande che spesso le persone si pongono è cosa ci stiamo a fare qui, qual è il nostro destino, cosa possiamo fare per renderci utili, che senso ha la nostra vita. Le stesse identiche domande che si pone chi nasce con gravi disabilità, sicuramente con un dolore e una frustrazione impossibili da comprendere.
Rick Hoyt è nato nel 1962, tetraplegico della nascita a causa di una paralisi cerebrale: provocata da un’asfissia quando il cordone ombelicale si è stretto intorno al suo collo. Incapace di controllare gli arti e parlare la sua vita è iniziata in salita, come quella di tanti bambini e bambine diversamente abili, in un mondo che non ha ancora capito come approcciarsi alla diversità. In famiglia, però, non si sono dati per vinti e hanno cercato da subito di instaurare con Rick un rapporto che permettesse loro di comprenderlo e interagire con lui nel migliore dei modi. Dieci anni dopo, gli ingegneri della Tufts University di Medford hanno costruito un computer che permettesse a Rick di comunicare, scegliendo le lettere con un tocco della testa e le sue prime parole furono: «Go Bruins», riferito alla squadra di hockey di Boston, rivelando un innato…