Uno sport e una storia. Per capire cosa rappresenti il cricket per l’India e la società indiana basterebbe leggere il romanzo di Aravind Adiga Selection Day, nel quale racconta la storia, appunto, di due fratelli nati in uno slum che riescono a sfondare nello sport, ovviamente il cricket: «Ma quale storia in un Paese dove il paria e l’uomo d’affari condividono gli stessi centimetri di asfalto benché una manciata di persone abbia addestrato il restante 99,9 per cento a vivere in un perenne stato servile»; perché il cricket è anche un ascensore sociale e come tale svela le ipocrisie di una società lanciata a tutta velocità verso il futuro con la zavorra di un passato che la tiene ancorata ad apartheid sociali e di genere. Selection Day, come scritto in una recensione, è una grande metafora di questi tempi, dove il cricket costituisce lo sfondo umano, sociale, sportivo, simbolico, letterario, di una metropoli – di una nazione, di un’umanità – attanagliata dall’ansia sociale.
Piero Paolo Pasolini soleva dire che «il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione». Una massima che potremmo applicare senza imbarazzo al rapporto tra gli indiani e il cricket, considerato la religione non ufficiale dell’India. Il comportamento sociale, lavorativo e civile degli indiani è condizionato e declinato dal cricket e, attenzione, non stiamo stereotipando una popolazione, stiamo onestamente raccontando il rapporto fra questa e il suo sporto preferito. Le persone organizzano le proprie giornate in base all’orario delle partite, soprattutto quando c’è la Coppa del Mondo – e non lo facciamo anche noi con il calcio? –, c’è chi si dà malato al lavoro, alcune aziende predispongono dei maxischermi per non far saltare la giornata lavorativa, altri ancora prendono ferie e vacanze in base al calendario. Chi può acquista i biglietti con largo anticipo, gli altri davanti al televisore e nei villaggi dove non tutti ne possiedono un…