Il mercoledì della finale il gigantesco drappo che copriva la facciata socialista del Politecnico di Tirana, accanto allo stadio, non c’era già più. Quasi duecento metri quadrati dell’immagine ormai iconica di Mourinho in Vespa, il giallo a fare da sfondo, le scritta in rosso “Benvenuto a Little Roma mister Mourinho”: l’avevano preparata e appesa lì nel tardo pomeriggio di martedì non i tifosi giallorossi, ma le istituzioni della capitale albanese, e quel drappo raccontava un significante che andava oltre il significato e cioè che, certo, Tirana avrebbe tifato per la Roma, ma la scelta del tecnico non era solo una sineddoche, la parte per il tutto. Mourinho era il tutto: la sua presenza nobilitava non solo la legittimità di una competizione nuova e dileggiata ma, addirittura, una città intera.
Mourinho l’ha visto quando, con la squadra, è arrivato all’Arena Kombëtare, lo stadio nazionale, e gli è bastato per capire, se mai ne avesse avuto ancora bisogno, la dimensione globale del suo personaggio. Larger than life, direbbero negli Stati Uniti e, dopo tutto, quello striscione (rimosso già nella notte di martedì per evitare possibili scintille con i tifosi del Feyenoord, che peraltro in quei momenti si stavano scontrando con la polizia in pieno centro) raccontava ogni cosa: poteva anche non vincere un trofeo dal 2017, poteva anche essere alla guida di una squadra di non primaria grandezza, poteva anche giocare la finale di una competizione europea considerata minore, ma lui era José Mourinho, José Mourinho era a Tirana – mai vi aveva messo piede, in Albania – e a José Mourinho andava fatta un’accoglienza adeguata.
Era la Roma, avrebbe potuto essere l’Inter, la Juventus, il Milan, la Lazio, la Fiorentina e sarebbe stato lo stesso; era Mourinho e non sarebbe stato così…