Monografia

Il peso dello sport

Biles, Osaka, Barty: il tema dei disturbi mentali negli atleti d'élite sta uscendo dal tabù svelando il fardello che ogni atleta d’élite porta sulle spalle: tecnici, sponsor, media, pubblico e pressioni acuite dallo sport come business

C’è una retorica che si sgretola poco alla volta e, come sempre accade quando si attacca lo stereotipo, è un passo avanti, piccolo ma significativo. È quella che vorrebbe gli atleti, tutti giovani e belli come gli eroi, ma anche solidi, indistruttibili, disumani; baciati da talento e ricchezza, per questo lontani dalle fragilità esistenziali che, peraltro, anche per il semplice fatto di essere appunto ricchi e famosi, non dovrebbe avere cittadinanza nelle loro vite. Che, tuttavia, solo loro realmente conoscono, e allora ecco lo straniamento: Ashleigh Barty, numero 1 del tennis femminile, che si ritira a 25 anni, un’icona come Simone Biles atterrita dai twisties, dai suoi demoni, un’icona come Naomi Osaka che non fa più mistero di non poterne più e grida al mondo, dalla copertina del Time, che «it’s ok to not be ok» e sì, non è che si deve sempre rispondere che va tutto bene, quando non è vero.

È il tema della salute mentale, che già di suo porta con sé lo stigma della pazzia, figurarsi poi quando si parla di sport, laddove la debolezza è l’esatta antitesi di ciò che l’atleta è portato a rappresentare, almeno nell’immaginario collettivo e in ciò che gli viene richiesto. Lo stesso motto olimpico (citius, altius, fortius, prima che vi fosse aggiunto il termine communiter) evoca qualcosa “di più”, che certo è ciò a cui aspirano gli atleti, ma anche ciò che ci si attende da loro. Il punto è proprio qui, nelle aspettative, in ciò che gli altri vogliono che uno sia, e gli altri sono gli allenatori e i tecnici, alcune figure di famiglia, gli sponsor, i tifosi e gli appassionati, persino gli hater. In quest’ultimo caso entra poi in gioco anche il contesto di un’era come quella attuale nella quale lo sport d’élite è strettamente connesso a logiche di business in cui l’empatia non ha cittadinanza e oltretutto – cosa impossibile ancora meno di vent’anni fa …

Lorenzo Longhi
Emiliano, ha esordito con il primo quotidiano italiano esclusivamente web nel 2001 e, da freelance, ha vestito (e smesso) casacche anche prestigiose. Di milioni di righe che ha scritto a tamburo battente gran parte è irrilevante. Il discorso cambia quando ha potuto concedersi spazi di analisi.